Credo che pian piano stiamo arrivando alla fine. Credo che nel subconscio, ormai, quando si tratta di scrivere, i pensieri prendono il sopravvento e mi portano sempre altrove; sempre a fare altro

Ma ho imparato a smettere di combatterli quei pensieri. Dopotutto siamo ciò che siamo, perché farlo? Ho imparato ad accettarli. 

Capisco che vogliono dirmi che ormai è luglio. Capisco che vogliono dirmi che è arrivato il momento di cominciare a scrivere le conclusioni. Capisco che, così come ogni altra cosa in questo mondo, anche questo diario finisce. 

Per quel che finisce voglia dire, poi. 

Finisce.

Cos’è la fine se non la continuazione di un processo? Cos’è la fine se non l’inizio di un qualcosa di nuovo? 
Non è forse la notte parte del giorno e il giorno parte della notte? E non è forse così anche per la vita e la morte? Non nascono forse una dall’altra?

Non è forse un fiume che scorre sempre lo stesso sia in un punto che in un altro? Non siamo forse, in fondo, sempre noi? Quelli di cinque anni fa, quelli di dieci anni fa, quelli di venti anni fa… quelli di domani?!

“We can’t rush the process” mi sto ripetendo ultimamente. Non possiamo accelerare il processo. “And neither we can fight it”, aggiungerei. E neanche possiamo combatterlo

Dopotutto anche noi siamo fiumi che scorrono.

Era da tanto che non piangevo mentre correvo, era da tanto che non riuscivo a lasciarmi andare. Poi d’un tratto stamattina è successo. 

Ero vicino a uno dei ponti sulla via del ritorno, correvo ed avevo il sole dell’alba in faccia. Così forte che non riuscivo neanche a tenere gli occhi aperti

Poi ho visto gli alberi muoversi.

Poi ho sentito il vento. 

Poi il pianto.


Era da tanto che non mi sentivo così.

Di recente mi capita spesso di trovarmi a pensare a se sto facendo bene a restare in città. A se sto facendo le scelte giuste. A se non dovrei prendere tutto e lasciare, invece. Poi però sento Coral ripetere i verbi di italiano e dire “finito” alla professoressa. Con quella sua vocina. Poi però vedo un bambino ridere ai bordi del marciapiede, vicino a un albero, mentre con una mano tiene quella grande del nonno stretta e con l’altra indica qualcosa, forse un millepiedi. Come ride. E come ride il nonno! Allora mi è tutto chiaro e la risposta arriva da sé. Cosa importa se sono in città, sull’oceano o sugli Himalaya? La felicità non è fuori, non lo è mai stata e mai lo sarà. Quanto chiaro e semplice è da capire questo quando siamo coscienti, vero? Eppure è negli altri momenti che dovremmo tenere duro, invece. Perché così com’è più facile dire che è una bella giornata quando c’è il sole, così è pure più facile vedere quando si è coscienti. Ma bisogna sforzarsi di vedere anche quando non lo si è. Di ricordare anche quando piove che il bello è dentro, che la felicità è già lì. Che senso ha sennò? Vivere tra lo spegnersi e l’accendersi, tra il vedere e il non vedere…

Posso perciò capire perché di recente mi capita spesso di trovarmi a pensare a se faccio bene a restare in città; siamo in lockdown una settimana sì e una no, ho appena speso seicento mila euro e altre spese continuano a saltare fuori, il telefono mi cade a terra quando non deve cadere, il sole è coperto dalle nubi delle fabbriche, la notte fa caldo, il giorno si suda, lo stomaco è gonfio e gli occhi sono stanchi. Eppure quella vocina piccola è lì. Eppure quel bambino e quel nonno ridono.

“In questo mondo bisogna stare svegli e vigili altro che con i sensi alterati!” È ciò che mi disse il medico di famiglia quando a quindici anni cominciai ad avere i primi dolori alla pancia causati dall’alcolismo pre-adolescenziale. Ma cosa ne potevo mai sapere io, all’epoca, che gli risposi che non cercavo un modo per evadere ma una soluzione per rimanere? Dopotutto parlavamo di due cose diverse. Dopotutto parlavamo due differenti lingue. Ora però posso capire ciò che intendeva. Ora posso capire stare svegli e vigili cosa significava e cosa significa. Ancora credo che avevamo punti di vista differenti ma ora lo ringrazierei per quel consiglio. 


Penso a questo mentre rido bevendo il mio caffè solubile americano stamattina perché una persona ieri mi ha detto che è come se bevessi brodaglia.

Quanto bene ci fanno le parole degli altri se ascoltate quando dette al momento giusto. Quanto? Che un messaggio a volte ci cambia la giornata, che un messaggio a volte ci cambia la vita. Eppure lo facciamo meno di quel che dovremmo perché in fondo mica sono fatti nostri? E sai quante volte l’ho sentito dire? 

Perché dovrei aiutare la cameriera se mi sbaglia l’ordine? Se non sa fare il suo lavoro sono problemi suoi!

Perché dovrei buttare gli avanzi del mio pranzo nel cestino? C’è chi è assunto per pulire a posta!

Perché dovrei lasciar passare quell’imbecille? Io ho la precedenza non lui!

Guarda questa imbranata come parcheggia. Le donne non dovrebbero guidare!

Che m’importa di come mi guardano le persone in un’altra nazione. Mica le rivedrò? 

E potrei continuare all’infinito ma credo di aver reso l’idea. Mica sono fatti nostri? 

Però continuo a dire a Coral e a tutti coloro che mi circondano che, seppur non sono fatti nostri e seppur non è il nostro lavoro rendere questo mondo un posto migliore, farlo non costa nulla. 

Per la cameriera che si fa il culo dodici ore al giorno per chissà che stipendio e che magari di notte studia anche. Per chi ci pulisce il tavolo che sempre uguale a noi è! Per chi oggi corre un po’ di più in macchina perché è in ritardo… o perché è soltanto scemo. Non abbiamo mai corso noi? E parcheggiamo così tanto meglio noi? E non ci da forse fastidio quando da italiani andiamo all’estero e la gente presume che siamo scostumati? Chi credi gli abbia messo quell’idea in testa agli abitanti di quella nazione? Non sono forse stati altri italiani che sono andati lì prima di noi e che non hanno saputo comportarsi perché appunto dicevano: “tanto chi li rivede a questi?”

Ci pensi mai?

Ma quanto ci costa rendere questo mondo un posto migliore che non ci riusciamo? Quanto? 

Perché non è un modo per evadere che ci serve. Non è un modo per evadere che dobbiamo cercare ma una soluzione per restare. Ed è già dentro noi. Davvero non riusciamo a vederla? Davvero non riusciamo a svegliarci?

Di recente sono tornato in fissa con lo shopping. Mi è ripresa quella voglia, quella dipendenza dal volere, volere una cosa in più. Lunedì era una collana di diamanti per Coral, martedì Fendace, mercoledì un orologio francese, ieri delle scarpe che indossavo da piccolo e che hanno rimesso in commercio, oggi sono delle scarpe per la palestra super comode (a detta del commesso) che sto pensando di comprare anche se le palestre sono ancora chiuse e chissà quando riapriranno! Come se fino a ieri (che ancora erano aperte) andavo scalzo, poi. 

Davvero, a volte, nient’altro siamo che bambini che solo vogliono un giro in più di giostra o delle caramelle al bancone della cassa del supermercato. Cosa ci differenzia? Lo schiaffo sulla mano dalla mamma che ci dice no. Perché qui non c’è mamma e se lo schiaffo non ce lo diamo da soli dove va a finire il bello dell’attesa? Il bello dell’aspettare, il bello del desiderare, il bello del capire il vero valore delle cose. Il bello del capire che dovremmo esser più che semplici consumatori. Ho scritto di recente in un post su Instagram:

“Piangevo perché volevo le scarpe poi ho visto un bimbo senza piedi.”

Com’è che ce lo dimentichiamo che esistono? Com’è che non ci dormiamo la notte over stupid things che vogliamo? Eppure moriremmo di diabete se nient’altro mangiassimo che cioccolata. Eppure non staremmo affatto comfortable nella nostra pelle se ogni sera cenassimo hamburgers in un fast food. Eppure non farebbe bene né al matrimonio né a noi stessi scoparsi ogni cosa che si muove…

Mi viene in mente la parola disciplina, ora. 

Disciplina

La disciplina del decidere di mangiare buon cibo quando abbiamo attorno tante altre opzioni che ci tentano. 

La disciplina di dire no quando quelli attorno a noi decidono di essere “nella media.” 

La disciplina di continuare quando fa male 

perché la vita, da che mondo è mondo, non ci ha mai dato quello che vogliamo ma soltanto quello che ci meritiamo. E spesso anche meno. E se non abbiamo lavorato per esso, se non ci siamo mai sacrificati, se non abbiamo dato tutto noi stessi come potremmo mai ottenerlo? 

Se non corriamo come li perdiamo quei kili in più? Se non facciamo gli straordinari, se non troviamo una soluzione alternativa come ce le paghiamo le vacanze? Se non le diciamo che l’amiamo, di tanto in tanto, come nostra moglie dovrebbe ricordarsene? Se non connettiamo con nostro figlio come potremmo mai conoscerlo meglio? 

Da che mondo è mondo, se si vuole salire in alto, si deve prendere la strada in salita. 
O rotolare giù.

La scelta è nostra.

Alla fine ieri non sono proprio riuscito a non bere, caro diario. Non ti dico neanche il perché, perché tanto alla fine una scusa la troviamo sempre quando (non) vogliamo. Però da oggi non ci sono cene programmate in vista e non ci sono neanche più birre in frigo. Il whisky è finito, la vodka anche e la cassa di vino di rosso australiano è bella che andata. Ci sono ancora due bottiglie di baijiu rimaste in credenza, sì, ma sono quelle da quattrocento dollari l’una e il programma è di non aprirle finché non ci trasferiamo in casa nuova per cui… no problem.

I presupposti, come vedi, ci sono tutti.

Vediamo come andrà questa volta. 


Sai, ho letto stamattina che non sempre le persone felici sono grate ma che le persone grate, invece, felici lo sono sempre. Credo sia una bella affermazione ed anche vera, magari. Dopotutto come non essere felici quando si è grati? Grati per i vestiti che indossiamo, grati per la colazione che abbiamo fatto o che stiamo facendo, grati per il pranzo e la cena che ci sono sempre garantiti, grati per la possibilità di scegliere cosa mangiare o cosa no. Grati per il fresco in casa d’estate ed il caldo d’inverno, grati per un tetto che ci copre, per un letto che ci da riposo ed un divano che ci da conforto. Per un computer che ci connette al mondo, un telefono che ci fa perdere tempo quando vogliamo perderlo e che ci fa fare soldi quando vogliamo farli. E ancora grati per la possibilità di scegliere o la prima o l’ultima. La possibilità di camminare, di correre, di parlare, di sentire, di ascoltare, di vedere. Di toccare. Di comunicare liberi. Di poter dire la nostra. Di poter scrivere senza censura. Di poter essere donna e dire che ci siamo appena masturbate senza poi rischiare di essere messe al rogo. Di poter essere uomini e dirlo ugualmente. Di ritrovarci. Di riconnetterci anche se lontani, di darci spazio anche se vicini. Grati per l’aria, per non esser nati in un paese del terzo mondo… perché poteva accadere, sai? Grati per non aver avuto la casa distrutta da una bomba o un figlio morto a causa di un proiettile senza il suo nome sopra. Grati per il caffè vicino, per il cielo chiaro, per il fresco del mattino che piano entra dalla finestra leggermente aperta, per delle lettere, per una parola, per una frase, per una nuova pagina di diario, per un diario. 

Grazie caro diario.

Soltanto adesso ho notato che è martedì. L’ho notato perché mi serviva guardare la data per cominciare a scrivere. Mi sa che mi sono perso un giorno.

E mi sa anche che devo diminuire il bere

Ultimamente tra pranzi, cene, aperitivi, birrette da solo e whisky prima di andare a dormire sono in una costante e perpetua alterazione dei sensi. Il che male non è visto che comunque faccio quello che devo fare. Il che però bene non fa se poi al mattino non so in che giorno sono e non ricordo cosa ho fatto il giorno prima. 

Ma oggi è un nuovo giorno, dico bene? Un nuovo giorno per ricominciare, un nuovo giorno per decidere e fare. “I am the master of my fate; I am the captain of my soul” diceva una poesia. Sono il padrone del mio destino, sono il capitano della mia anima. 

Sono il padrone del mio destino, sono il capitano della mia anima. Posso fare qualsiasi cosa io voglia, sono io a decidere. 

Siamo noi

Non possiamo controllare il colore di neanche un singolo nostro capello in testa ma possiamo controllare la nostra prossima azione, la nostra prossima scelta. 

Scegliamo per cui qualcosa fatta e rifatta in passato che ci ha portati a dove siamo ora, pieni di rimorsi e vuoti di memoria, o scegliamo qualcosa di nuovo che potrà portarci a dove vorremmo essere, in pace e lucidi

Io ho già scelto. 

È per questo motivo che sto inserendo questa pagina nel diario, che sto per passare l’aspirapolvere e lo straccio a terra, che sto per stendere la lavatrice, che sto per prendere la borsa da lavoro, un libro e andando al parco a lavorare e a leggere durante la pausa pranzo. È per questo motivo che non berrò una birra con la mia insalata. È per questo motivo che prenderò un succo d’arancia, invece, oggi.

Parlavo con un amico a cui è stato chiuso l’account di Instagram da Instagram stesso, ieri. Era disperato. Sentiva come se tutto tutto il lavoro fatto nei passati tre anni fosse andato a finire nella spazzatura. Si è addirittura sentito male per due interi giorni cercando di contattare il servizio clienti IG, invano. 

“E che fa?” Gli ho detto. 

“Come che fa? Tutti quei followers, tutte quelle foto.” Mi ha risposto. 

“Siamo qui stamattina insieme per via di tutti quei followers, per via di tutte quelle foto?”

“No.”

“Ci stiamo pagando da bere per via di tutti quei followers, tutte quelle foto?”

“No!” Ancora la sua risposta. 

“E allora?”

Certe volte dimentichiamo che la frase “tutto è di passaggio” vale anche per le cose che crediamo di possedere e non soltanto per chi abbiamo intorno. Passano i genitori, passano i figli, passano i fratelli… perché non dovrebbe passare anche una pagina Instagram? Per quanto ne so ogni mio libro online, ogni mia pubblicazione, ogni mio contatto, questo mio diario, questo mio blog, potrebbero sparire da un momento all’altro soltanto perché a Google gli gira così. Potrebbero sparire da un momento all’altro anche soltanto perché il mio computer si blocca e impazzisce, pensa. Che ne sappiamo? Ma dovrei sentirmi disperato a questo pensiero? Dovrei sentirmi disperato se ciò accadesse? Ovvio che no! Triste un po’, certo. Comunque avevo messo me stesso dentro ognuna di quelle parole sparite, dentro ognuna di queste parole scritte… ma la vita vera è altro

La vita vera è quell’emozione che vi ho lasciato in questi anni insieme, l’emozione e i pensieri che le mie parole hanno scaturito in voi. La vita vera è con quanti di voi siamo in contatto nella realtà, con quanti di voi ci scambiamo carezze (se pur da lontano), con quanti di voi piangiamo, con quanti di voi ridiamo. Con quanti di voi davvero teniamo l’uno all’altro e ci pensiamo guardando il cielo quando piove o quando c’è il sole.


Vale la pena di non provare la bellezza del bacio di una madre soltanto per evitare un giorno di perderla? Io dico di no. Perché tutto passa. Ce ne dimentichiamo ma in fondo lo sappiamo.

Tutto passa

Come si dice in Italia? “Fasciarsi la testa prima di prendere una botta.” E che senso ha, dimmi? 

Prevenire, dici? 

Allora non cammineresti neanche perché quante volte sei caduto da bambino imparando a camminare e poi a correre?

“Repetita Iuvant” mi ha detto qualcuno di voi in risposta a cosa ho scritto ieri; ripetere fa bene. E lo fa davvero perché come si dice anche in Asia, in merito alle arti marziali, non sono mille esercizi fatti una volta ma il singolo esercizio fatto mille volte

Per cui stamattina sono libero da quella gabbia mentale che avevo fino a ieri. Per cui stamattina posso tornare a far scorrere le mani su questa tastiera e a scrivere sinceramente senza pensare, soltanto chiudendo gli occhi. 

Scrivere. 

Proprio ieri qualcun altro di voi mi ha mandato un’intervista di Jorge Luis Borges. In cui lo scrittore affermava che il poeta è colui che non usa le parole ma i sogni. Che il poeta è colui che deve “sognare sinceramente, essere libero”. Quanto bella è questa affermazione? Aggiungerei poi anche che non soltanto il poeta dovrebbe sognare sinceramente ma ognuno di noi.
In fondo siamo tutti poeti se sappiamo con un sorriso far sorridere chi abbiamo seduto di fronte, no?

E sorrido davvero, ora, pensando a quante volte sorrido agli adulti che mi guardano in strada e soltanto continuano a fissarmi dopo che li ho sorrisi… e a quante volte invece i bambini mi ri-sorridono timidi in risposta. O corrono via rossi in faccia. 

Una bambina una volta mi ha preso per mano. 
Un bambino una volta mi ha regalato un fiore.
Una mamma una volta si è presa cura anche di me.
Un papà una volta mi ha insegnato l’arte del donare.

Quello è un mondo risorto.
Quello è un mondo vivo.

Ho finalmente capito perché in questi giorni “passavo” ogni volta che arrivava il momento di scrivere. Non sono nell’equilibrio e nella condizione di farlo come lo ero prima, certo, ma quelli non sono gli unici motivi. C’è di più. Più volte ho avuto questa sensazione durante l’anno, questa sensazione di peso, di pressione addosso al pensiero della scrittura. Non era niente a che vedere con me. Era tutto riferito a un peso proveniente dall’esterno. Cosa voglio dire con questo.

In questo periodo, come sicuramente ho già anche detto in precedenza, sto riorganizzando le pagine di questo diario perché la data della pubblicazione si avvicina e con essa le scadenze. Agosto è dietro l’angolo e, nonostante la copertina dell’ebook sia ormai pronta, per preparare la versione cartacea c’è bisogno che fornisca all’azienda con cui sto collaborando informazioni sul formato da scegliere per la stampa, sulla dimensione, sulla quantità di pagine, ecc. ecc. Tutti tecnicismi che mi stanno portando, in un modo o nell’altro, ad una prima correzione e ad una prima “auto-valutazione” di quest’opera. 

Alcune pagine continuano a farmi piangere ogni volta che le rileggo. Altre continuano a farmi ridere. Altre a farmi sorridere. Altre a farmi viaggiare. Ma altre anche a farmi “storcere il naso” … perché sento che le ho ripetute più volte in più giorni. 

Per cui i dubbi arrivano.

Devo toglierle? Devo forse eliminarle? Devo forse tagliare le parti che sembrano uguali? 

I dubbi arrivano e con essi il pensiero che, forse, se scrivessi ancora, adesso, potrei ripetermi ancora, ora. E come risulterebbe ciò alla fine? Ripetitivo? Noioso? Da qui la voglia di non scrivere più. Da qui il “passo” ogni mattina quando apro il computer e questo diario.

Però sai stamattina cosa ti dico? 

Che non siamo forse tutti ripetitivi quando cadiamo sugli stessi errori? Non siamo forse tutti ripetitivi quando procrastiniamo? Quando ci facciamo promesse che poi rompiamo? Non lo siamo forse anche quando abbiamo bisogno di mangiare? Non mi sembra che se mangiamo tanto a colazione poi siamo a posto per tutto il resto della giornata. La fame prima o poi ritorna. Non mi sembra che una carezza stanca. O che un orgasmo una volta avuto non lo vogliamo più. Non mi sembra che smettiamo di dire “buongiorno” perché tanto lo abbiamo già detto ieri. Non mi sembra che smettiamo di leggere perché tanto sono sempre e comunque solo libri. Non mi sembra che smettiamo di parlare perché tanto le parole e le cose da dire sempre quelle sono. Non mi sembra che smettiamo di andare a scuola perché tanto le cose da imparare sono già tutte online. 

Allora perché dovrei smettere di scrivere soltanto perché un pensiero torna? Non torna forse anche a te un pensiero che avevi ieri? Non torna forse anche a te il sorriso per una cosa che ieri già ti dava il sorriso? 

Questa vita è un ciclo e chi non lo ha capito può ridarmi indietro il diario. Lo rimborso.

Perché chi ha occhi 
non ha bisogno di leggere.
Perché chi ha orecchi
non ha bisogno di ascoltare.
Perché chi ha occhi sa.
Perché chi ha orecchi sente.