Mi ha sempre fatto sorridere il mondo dell’arte, quello della scrittura in particolare. E non tanto per la scrittura in sé; quella è magia, come fai a toccarla? Ma per quello che c’è dentro o ci gira attorno, per quelli che ci sono dentro o ci girano attorno. Ho sentito di scrittori troppo bravi per condividere le loro opere, ho sentito di scrittori troppo avanti per soffermarsi sui lettori, ho sentito di scrittori incompresi non letti, ho sentito di scrittori incompresi troppo letti e troppo comprati. Ho sentito di scrittori troppo più in alto per la banale pubblicità sui social, ho sentito di scrittori troppo in basso per arrivare dove la società non vuole che arrivino. Ho sentito di scrittori che leggono, ho sentito di scrittori che non leggono. Ho sentito di scrittori che dicono fesserie per fare numero, ho sentito di scrittori che dicono la verità non fregandosene delle conseguenze. Ho sentito di showman scrittori, ho sentito di scrittori businessman. Ho sentito di scrittori stupidi. Ho sentito di scrittori geni. Ho sentito di scrittori e non ho sentito di altri. Ed ho sentito di quelli che ci girano attorno poi, alla scrittura. Ho sentito di quelli che supportano, ho sentito di quelli che vogliono porre i propri limiti su chi limiti non ne ha. Ho sentito di quelli che fingono, ho sentito di quelli che dicono la verità. Ho sentito di quelli che dicevano: “ma che sei ricchione che scrivi poesie?” e ho sentito di quelli che dicevano: “come hai fatto?”. Ho sentito di quelli che hanno buttato i miei testi nella spazzatura e ho sentito di quelli che i miei testi li hanno appesi al muro. Ho sentito chi mi ha detto che le cose che scrivo sono infantili ed ho sentito chi mi ha detto che le cose che scrivo gli hanno cambiato la vita. Ho sentito chi mi ha letto e deriso, ho sentito chi mi ha letto e pianto. Ho sentito chi mi ha detto che i racconti dell’Asia alle persone dell’Ovest non possono fregar di meno, ho sentito chi mi ha detto che l’Ovest ci muore per sapere cosa succede nell’Est. Ho sentito chi mi ha letto ed è stato zitto, ho sentito chi non mi ha letto ed ha parlato. Ho sentito chi mi ha letto e mi ha guardato, ho sentito chi non mi ha letto e mi ha pregiudicato. Ho sentito chi ha sentito, ho sentito chi non lo ha fatto. Ho abbracciato chi lo ha fatto, ho sorriso a chi invece no.

Per questo secondo articolo non sono in un bar come nel precedente ma in una delle strade principali che c’è in uno dei centri di Pechino. Sanlitun si chiama la zona. Puoi cercarla online; è affascinante. Qui ci sono discoteche, ristoranti di un certo tipo, grattacieli, centri commerciali di 30 piani, negozi di lusso. Ti sorprenderesti nel vedere quante Rolls Royce e Ferrari ci sono che passano di qui. E questa non è neanche una delle aree più ricche.

Non mi piace venire in queste zone ma mi ci ritrovo a venire spesso per vari motivi e ogni volta penso: “I don’t belong here”, che in italiano più o meno vuol dire: Non appartengo a qui, non appartengo a questo posto. Già. Eppure ci sono. Eppure le lascio aver peso e le lascio prender spazio a questa mia contraddizione che mi vede seduto a terra, sul marciapiede di questa strada a bere un energy drink, con di fianco una busta di Louis Vuitton ed una di Balenciaga. “I don’t belong here” eppure “here” vengo a prendere i regali per mia moglie. Ma a chi prendo in giro? Mi piace venire qui. Mi piace venire qui con la mia faccia e la mia pelle in mezzo a questi altri che la mia faccia e la mia pelle non ce l’hanno. Mi piace venire qui a farmi guardare male entrando e a farmi ringraziare uscendo. L’ho sempre fatto. Mi piace venire qui con la mia pelle e sapere di potere. Ma a chi prendo in giro? Odio venire qui e ricordare che prezzo ha avuto questo potere.

Ti racconto una storia.


Appena arrivato a Milano mi chiamavano “Il Gangster”; e potevo immaginare il perché. Venivo da giù (e non capisco come mai ma nella cultura di massa ignorante venire da giù vuol dire già qualcosa di negativo), vestivo largo con le catene al collo, col giubbino di pelle, coi pantaloni larghi e bassi e coi capelli lunghi fino al sedere raccolti in un codino o in una treccia… insomma, non un classico volto che vedi tra i banchi di ingegneria a Milano!

Il Gangster “.

E ad essere sinceri all’inizio mi piaceva quel soprannome. Ero sempre stato diverso ed ora anche lì lo ero, ed ora anche lì lo sapevano. Ma col tempo, crescendo immagino, quel “titolo” cominciava a stancarmi. Sentirselo dire in classe davanti ai professori, davanti a futuri amici, futuri colleghi di lavoro o magari futuri capi di lavoro non era il massimo. E ancor di più non era il massimo sentirselo dire alle spalle. L’ambiente universitario è diverso da quello della strada e se cominci ad essere riconosciuto per le cose sbagliate, ne paghi le conseguenze quando poi l’università finisce. Non volevo quello. Non era quello che stavo cercando di costruire. Così dopo poco, grazie anche all’aiuto di una persona, ho deciso di cambiare. Ho tagliato i capelli, ho tolto le catene e ho cominciato a vestire “più stretto” e “più elegante”. Polo Dior, camicie Burberry, magliette Versace, jeans Ck, cinture Hermes, scarpe Paciotti, sneakers Zanotti, anfibi Gucci, mutande Armani. Non c’era una boutique di Montenapoleone che non avevo visitato. E devo essere sincero? Cominciavo a prenderci gusto! Ero diventato un’altra persona, MI SENTIVO un’altra persona. Migliore?! Non so! Ma sicuramente diversa.

Eventualmente i corsi ricominciarono. Si ritornava in aula.

Era stato uno shock per le persone che mi conoscevano e mi avevano visto crescere vedermi così diverso da un giorno all’altro. Ed erano felici di quel cambiamento. Sapevano cosa voleva dire e sapevano che mi avrebbe portato via da determinate strade… di pensiero. Ed era strano persino per me, quando passavo davanti agli specchi dei negozi o davanti ai finestrini delle macchine, vedere quell’immagine riflessa. “E chi è quello?!” pensavo, mentre mi facevo una risata e mi dirigevo verso l’università. Ero curioso. Ero curioso di vedere le facce degli altri. Ero curioso di sentire com’è che suonava sentirsi chiamare Paolo l’ingegnere. O magari non so, qualcosa di simile. Beh, vuoi saperla una cosa? Non l’ho mica saputo poi com’è che suonava sentirsi chiamare in quel modo! Perché da “il gangster” ero passato a “il mafioso”. Giusto! Non lo avevo considerato, (silly me!). Il gangster veste largo e senza marche in vista. Il mafioso veste stretto e costoso. Che stolto ero stato a non averci pensato prima!

Finisco l’energy drink, butto la lattina nel cestino facendo canestro e mi rialzo. Prendo da terra le due buste e torno nella mia zona, tra chi la differenza della pelle non la vede.


Abbiamo la pelle che abbiamo e dobbiamo esserne fieri e orgogliosi. Perché la nostra pelle racconta la nostra storia e la storia di chi questa pelle ce l’ha data. Non dobbiamo cercare di cambiarla; non per gli altri, almeno. Anche perché se la vuoi con le strisce bianche e nere, la gente ti dirà sempre che in realtà ce l’hai con le strisce nere e bianche.

Non ne vale la pena.

Non ne vale la pelle.

Ero a casa quando ho pensato di iniziare a scrivere questo primo articolo sul blog. Ero nella camera da letto, seduto alla scrivania. Pensavo a un modo per cominciare. Pensavo, pensavo, ma nulla.

Così ho cominciato a fissare il muro, sperando chissà, che magari quella parete bianca si fosse trasformata in una lettera, o ancor meglio in una parola. Una sola! Una sola mi sarebbe bastata per cominciare e l’argomento sarebbe nato da quella. Ma nulla!

Allora ci ho rinunciato.

“Non è il momento” ho pensato e così ho lasciato perdere.

Mi sono preparato e sono uscito a prendere un caffè con un’amica. Nell’uscire di casa ho preso anche il computer però. Tanto per mostrare alla mia amica come stava venendo il sito.

Al bar ho preso la mia solita combo (caffè americano e muffin ai mirtilli) e lei anche ha preso il solito (mocha con crema e un pezzo di cheesecake). Ci siamo seduti. Prima a un tavolino vicino al muro ma, siccome l’aria condizionata mi arrivava dritta dietro al collo (e non avevo con me la sciarpa tattica estiva per i luoghi che sono a -10 gradi d’estate), ci siamo spostati sui divanetti. “Molto meglio ora!”

Ho scartato il muffin, come sempre faccio. L’ho tagliato delicatamente piano in quattro (soltanto perché ero con una ragazza altrimenti lo avrei mangiato da animale) e piano piano chiacchierando l’ho mangiato (anche qui, lo avrei divorato se ero da solo… ma sono un gentleman e allora piano piano).

Abbiamo chiacchierato e siamo stati insieme per circa due ore. Poi lei è andata ed io sono rimasto ancora un po’. La conversazione mi aveva fatto riflettere e così, ordinando uno spritz grande senza ghiaccio questa volta (Starbucks qui vende anche alcolici), ho preso il computer ed ho scritto: La Zona di Comfort.

Sì. Perché la cosa in particolare che mi ha fatto riflettere nella conversazione avuta poco fa, è che le persone davvero “stanno bene” nelle loro zone di comfort. Anche se questo vuol dire non essere felici o lamentarsi in continuazione, anche se questo vuol dire procrastinare e avere e continuare a vedere problemi su problemi arrivare.

Vogliamo cominciare a metterci in forma ma decidiamo di perdere qualche kilo prima di iniziare a correre.

Vogliamo cominciare a leggere ma aspettiamo di avere del tempo prima.

Vogliamo mangiare più sano ma da lunedì.

Vogliamo comportarci in maniera meno egoista, ma caspita! Guarda quanto stronze sono le persone!

Vogliamo che il capo non ci rompa più le palle e ci dia più credito, ma siamo i primi a lasciare l’ufficio a fine giornata.

Vogliamo essere felici ma aspettiamo che il momento giusto arrivi …

ma…

cos’altro?

Cos’altro deve prima accadere, prima di capire?


Mi viene in mente adesso che un uomo una volta ha detto: accettate la sofferenza.

Una frase del genere, ora, ci verrebbe da far pensare: “Madonna! E rilassati! Enjoy!”, vero? Beh… a chi viene da pensare così non è chiaro il significato di quella frase. E neanche a me lo era un tempo, se devo essere sincero.

“Accettate la sofferenza”

La sofferenza esiste, si sa. Ma io la vedo così… Ci possiamo rilassare e we can enjoy, sì, (ovviamente), ma possiamo realmente farlo solo dopo che abbiamo imparato ad accettare la sofferenza. E…

Cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire che non aspetto che perdo due kili prima di cominciare a correre! Comincio a correre… e poi perdo i due kili! (E se cominciare a correre credi sia sofferenza, aspetta l’inverno, quando al mattino fuori è buio e freddo e sta solo a te decidere se vincere o meno. E aspetta quando invece fuori è bello ma a te semplicemente non va!).

Cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire che se voglio leggere ma non ho tempo, lo trovo il tempo. Chi controlla chi?! Tu la tua giornata o la tua giornata te? Non possiamo decidere di cambiare neanche solo uno del colore dei nostri capelli ma, possiamo decidere COSA FARE ORA. Ricordatelo!

Cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire che se voglio mangiare più sano non aspetto lunedì ma butto via sto muffin pieno di chissà cosa dentro e mi mangio na banana e na mela!

Cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire che se vogliamo essere persone migliori lo siamo anche quando la gente ci tratta di merda. Perché è facile essere carini con chi è carino con noi. Con chi è gentile e sorridente, con chi ti sorride dolce e ti stringe la mano. È facile essere carini quando c’è il sole… ma prova ad esserlo quando fuori invece piove. Prova ad esserlo con chi ti risponde male, con chi ti salta nella fila e ti guarda come se avesse ragione. Con chi SBAGLIA e ti parla come se avesse ragione! Provaci. È allora che davvero saremo sulla strada per essere persone migliori… ed è facile secondo te? Certo che no! È sofferenza! Perché essere in pace e meditare sugli Himalaya ti cambia la vita, (credimi, l’ho fatto). Ma restare in pace e meditare nel caos della città è tutta un’altra cosa… tutta un’altra storia.

Cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire che se vuoi smettere di lamentarti del capo, delle rogne e del poco credito che ti dà ogni volta, cominci a non prepararti più alle 17.28 a fine giornata per andare via come fanno nell’ufficio di Fantozzi, ma resti finché il capo resta, approfittando di quel tempo che siete gli unici due rimasti in ufficio per chiedergli se c’è qualcosa in più che puoi fare per dargli una mano. Ed è facile secondo te? Col caz**! È sofferenza! È sofferenza perché vuol dire che per chissà quanti giorni poi resterai fino alle 22 per finire i lavori extra che tu stesso hai chiesto ( e credimi perché anche questo l’ho fatto). Però sai cosa? Ora bevo liquori da 500 euro dopo pranzo e fumo sigari cubani da 100 euro con lui, e con lui soltanto, sia nel suo che nel mio ufficio.

Per cui: “accettate la sofferenza” vi dico, come diceva quel tale.

E cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire uscire fuori dalla zona di comfort. Vuol dire uscire fuori da quella situazione in cui ci troviamo, da quella situazione in cui in fondo lamentarsi é più facile che fare realmente qualcosa; accettando la sofferenza come conseguenza delle azioni. Perché ogni volta che si esce da quella zona la sofferenza arriva… credimi! Ma puoi stare tranquillo, perché arriverà così tante volte che eventualmente comincerai col considerarla diversamente. Arriverà così tante volte che eventualmente, (dopo così tante volte e ancora una in più), comincerai col considerarla addirittura piacevole. Piacevole perché sinonimo di crescita… perché sinonimo che stai salendo.

Per cui accetta la sofferenza. Accetta la sofferenza perché tanto i problemi non finiscono, cambiano. Accetta la sofferenza. Accetta la sofferenza e sarai felice.

Amen


PS

Non so se questo è il modo giusto di scrivere un articolo su di un blog o no. Non ne ho mai letto e mai seguito nemmeno uno prima. Ma è così che funzionerà qui sul blog di Paolo Cuciniello. L’autore parlerà in terza persona di sé così a caso, all’ormai terzo spritz grande senza ghiaccio, e scriverà quello che gli passerà per la testa in quel momento.

Per cui se decidete di restare: commentate, condividete, scrivetegli, fategli sapere se vi è piaciuto o meno l’articolo e … e niente 🙂

Alla prossima!

PC