Empty conversations, conversazioni vuote. – Di recente ho sentito questa espressione più di una volta.

Cercavo un posto tranquillo dove andare a scrivere in pace; magari con un buon caffè, magari con l’aria condizionata non troppo forte, magari senza troppe persone. Pensavo al classico Starbucks ma lì la musica è altissima e si gela. In biblioteca? Non volevo quel tipo di silenzio. Al parco? Troppo caldo! E poi troppe zanzare! Scegliendo e scartando le varie opzioni nella testa, gironzolando sullo scooter, a un tratto sapevo dove andare. C’era una libreria qualche quartiere più lontano dal mio con un bar carino al suo interno e tranquillo, ricordavo; con un tavolo che dava le spalle alla finestra che equilibrava perfettamente la temperatura di dentro dell’aria condizionata e la temperatura di fuori del sole. Perfetto! Era tanto che non ci andavo e quella scelta poteva andare. Mezz’oretta dopo arrivo ma, chiuso! Aprono alle 10.30! Erano le 8.13. Porca miseria! Dove potevo andare? Il mood era anche andato ormai e non ne avevo idea. Così decido di sedermi lì, su di una panchina all’interno del quartiere. Magari aspettando, magari riposando soltanto, (dato che faceva caldo ed ero già tutto sudato), magari perdendo tempo. Il mood, come dicevo, era andato per cui, che importanza aveva. Mi sono messo a guardare attorno. Le case. Le strade. Quelle poche persone che passavano. Poi ho sentito qualcuno cantare (in cinese ovviamente). Poi ho sentito qualcuno cantare (in italiano questa volta! Non potevo crederci, in italiano?! Qui?! A quest’ora di domenica?!) Cantava una canzone dei Modá. La ricordavo anche. Poi ho sentito qualcuno cantare in spagnolo! E poi in francese! E poi di nuovo in cinese. Non potevo crederci. Allora decido di spostarmi per vedere da dove proveniva quel canto e attorno a un grande albero vedo un ragazzo apparentemente non troppo… come dire… “normale” … (ma chi lo è in fondo?… intanto questo sapeva quattro lingue! O quattro canzoni in quattro lingue differenti, quantomeno). Così mi siedo lì in modo che possa vederlo e sperando che lui possa vedere me. Ed ecco che proprio mentre riprende a cantare in italiano, si gira e guarda nella mia direzione. Ci guardiamo negli occhi per un secondo soltanto. Si ferma col girare attorno all’albero. Si ferma col cantare, anche. Poi mi fa un cenno. Rispondo con un altrettanto cenno e un sorriso e poi: “sai cantare?” mi chiede (in italiano!). “A modo mio, sì”, gli rispondo. Allora mi fa segno di unirmi a lui e così cominciamo entrambi a camminare (quasi come in una danza seguendo un ritmo ben preciso) intorno all’albero e a cantare: Ciao/ semplicemente ciao/ difficile trovar parole molto serie/ tenterò di disegnare… come un pittore!

Meglio questo che conversazioni vuote” mi dice poi, continuando a cantare e a danzare intorno a quell’albero. Meglio questo che conversazioni vuote.

Mettiamo sempre interamente noi stessi nelle conversazioni che facciamo o parliamo tanto per parlare? E mettiamo sempre interamente noi stessi quando ci parlano, nell’ascoltare, o solo aspettiamo? Chuck Palahniuk in un suo libro scriveva: “When people think you’re dying, they really, really listen to you, instead of just waiting for their turn to speak”, è quando le persone pensano che stai morendo che davvero, davvero ti ascoltano, invece che stare ad aspettare il loro turno per parlare. Noi aspettiamo? O ascoltiamo? Perché non so se lo sai ma in fondo se siamo ancora vivi stiamo anche già morendo, non trovi? Come facciamo a sapere che quel “ciao” detto di fretta, quel “si mamma ok. Non rompere!”, quel “sì, dopo ne parliamo, papà. Non ora!”, non siano le ultime cose che diremo a quelle persone? Se siamo ancora vivi stiamo anche già morendo e così anche loro, sai? Conversazioni vuote. Evitiamole. Meglio danzare intorno a un albero. Meglio cantare. Meglio ascoltare. Meglio stare in silenzio, ma insieme.

Conversazioni vive.