It’s funny how we let ourselves believe in whatever our body wants to believe. It’s funny how we let ourselves be guided from everything that’s outside instead of what’s inside, instead of what is that really matter. Maybe because it’s far easier? Maybe because it’s far more convenient? After all, how convenient is it to blame other circumstances for things that we do not let happen? How easy is it to blame others for things that we do not do?

Since my last book, I have been writing much less, and it’s no secret. I have been less here, on the website; I have been less on the social media; I have been less between my readers; I have been less between what gives me balance. Of course, there was always an excuse and, of course, some of them were true too. I need spaces when I need spaces; you that follow me know that. I need my times when I need my times. But how about balances? Do we really need spaces from them too? Do let ourselves go really make us better? Do let ourselves go really make us happier? I often think about this when I start to do again the things that I used to do in order to feel truly myself. Running for example. Every time I go running, I remember how good it is for me. Sometimes I even cry while I run, and you know why? Because I re-find myself. And it’s touching, really, how much I know I missed him. Did you ever have that feeling? To miss yourself so, so much that when you finally re-find him/her, you just cry. Oh, only God knows how many times that happened to me. Only God knows how many times it still will happen. Only God knows. But why then we go so far from who we are? Why that happens? This life… this fuc*@ing life, truly… We give up so many little things, thinking we don’t need them. We give for granted so many little things, thinking they are trivial. But believe me, if there’s one thing I have learned is that nothing here is trivial. Nothing. Not even that little thought that pass by your mind in that apparently useless moment; not even that wind blowing through your window at night while you can’t sleep; not even that message from a stranger that says hi (who knows why); not even the tears of your mother; not even your tears for your father or your brothers; not even the pain for the big things; not even the love for the little ones. Nothing here is trivial. Did you know that?


I went to sleep very early last night. Something overwhelmed me. Something crushed on me and torn my inside apart. I needed to shut everything off. Who knows what it was. Who knows what is making me feel this way these days. These days in which I feel like if I would try to die, I wouldn’t die. These days in which jumping would do me no harm. These days in which those voices…

This life… this fuc*@ing life, truly.


I woke up last night and I started to write again, you know? I began a new story. Not in my new office as I planned, no, but on the sofa in the living room. I couldn’t sleep any more, and so I decided to get up. It was 1:30 in the morning. I woke up confused, with a headache. I just sat there and words just begun to come out. I was full, maybe. I was full of an unbalanced life. I needed to throw them out and so, I did. Then I fall asleep again and woke up few hours later, coming to the office to write here. I don’t even know why I am writing in English right now. After all, most of my readers are from Italy. But funny thing is, after all, that my most ranked articles online are in English. I guess the reason then, of why I am writing in English, is a mix between these two things, and… I don’t really care at this point. In fact, I’m not even going to try to answer to that question. It happened before already, sometimes it does. And you know, when I didn’t want to give an answer to things like these, I used to think that it was because they were trivial, but… believe me, nothing is.

Nothing.  

Mi è capitato più volte d’incontrare qualcuno che mi facesse questa domanda. Me l’hanno fatta alle scuole medie; quando scrivevo testi rap in un periodo in cui il rap non esisteva. Me l’hanno fatta alle scuole superiori; quando scrivevo –poesie- in un periodo in lui la poesia non esisteva. E me la fanno ancora ora, quando scrivo libri, in un periodo in cui tutti sembrano volerli scrivere.

Già, perché c’è sempre qualcuno che ha qualcosa da dire… Anche se poi non sa cosa.

Come creare storie, allora, chiedono. Come crearle.

Come quel tale in un bar in California che in strada mi ha fermato in una notte di dicembre. “Pss. Pss.” Mi ha chiamato. “Pss. Pss.” Mi ha fatto cenno. “Ti va di bere con me se ti dico chi sono?”

Non avevo capito alla prima e così mi ha ripetuto la domanda.

“Ti va di bere con me se ti dico chi sono?”

Ero già brillo ed ero già in strada da solo da un po’. Aveva appena smesso di piovere, ero bagnato ma in cerca anch’io di qualcos’altro da bere, e allora: “Va bene.”

“Da questa parte. Seguimi.”

È così che ho incontrato Jim Morrison ed è così che sono entrato nel suo mondo. Un mondo fatto di rock e di emozioni forti. Un mondo fatto di poesia e di amore. Un mondo fatto di droghe, di porte, di percezioni nuove. Un mondo illusorio, un mondo fatto di bugie perché da troppo tempo si nasconde, da troppo tempo mente al mondo, e così a sé stesso, su chi è realmente. In cima alle classifiche negli anni settanta, invitato a ogni festa, in ogni casa, in ogni club. Ora nessuno lo invita più e dalle case e dai club lo cacciano fuori perché il suo bere è diventato insostenibile. O quanto meno il risultato del suo bere; diventa molesto e vuole fare sempre a botte.

“Ma io chi sono?” Mi chiede. “Colui che gioiva e cantava, soffriva e scriveva, piangeva e viaggiava e gioiva ancora… O colui che vuole fare sempre a botte, ora? Io non capisco.” Mi dice. “Io vengo dagli anni dei figli dei fiori. Dagli anni in cui si celebrava la pace, l’armonia, il sesso libero, l’amore per le donne, l’amore per gli uomini. Hai mai baciato una donna, sì?” Mi chiede e poi senza aspettare risposta continua: “E hai mai baciato un uomo, invece? Sai che le labbra di entrambi, in un bacio, nient’altro sono che la manifestazione di ciò che il loro cuore vuole in quel momento? E in quel momento i loro cuori sono molto più simili di quanto immaginiamo. Credimi, lo so perché li ho visti quei cuori. Li ho visti per davvero, sai? E non soltanto attraverso le loro labbra, non soltanto attraverso la carne del loro corpo, attraverso le parole e le canzoni, gli orgasmi e le poesie. Li ho visti per davvero. In simbiosi, battere dolcemente al ritmo dell’anima mentre davano vita a sensazioni che mai prima ho provato o sentito e mai più ho sentito o provato. Ti è mai capitato?”

Come quella donna a cui piaceva viaggiare il mondo nel tempo collegando persone tra spazi e tempi diversi. Facendoli sentir l’un l’altra, facendoli esser coscienti l’uno dell’altra ma mai facendoli incontrare. Risultati e proiezioni di un passato in cui non ha avuto affetto, proiezioni dal passato di una bambina cresciuta sola perché lasciata sola, o messa in disparte, presa di mira perché piccolina. “Unisco ora queste persone oltre lo spazio e il tempo cosicché nessuno si senta più solo come mi sentivo io”, pensa. Lo fa per un nobile motivo come vedi. Non credeva facesse alcun male e neanch’io credo che in realtà ne facesse, o voleva farne. Semplicemente non poteva immaginare che in un differente futuro da quelli che di solito visitava, avrebbero creato il web e la tecnologia, i telefonini e il multiverso. Non avrebbe potuto immaginare che in quel futuro senza spazi, quelle persone che aveva collegato in precedenza avrebbero avuto anche modo di parlarsi durante il giorno e non soltanto più sentirsi o vedersi solamente nel mondo dei sogni la notte.

Aveva attraversato spazio e tempo credendo di unire ciò che era diviso. Si era ritrovata a guardare giorno e notte mischiarsi, persone già unite ad altre unirsi ancora, e ancora, ad altre.

Senza volerlo aveva creato il male perché… Perché non tutti riuscivano a vedere quello che vedeva lei. Non tutti riescono a vedere le cose da lontano come le vede lei.

E lei questo non lo voleva.

Come creare storie, allora, ora si chiede.

Storie d’amore. Storie pure. Storie che non facciano male.

Questo lei ancora non lo ha capito ma sa che, se per vedere usa gli occhi di dentro, quel cuore e quell’anima battere insieme riesce a vederli anche lei…

Quel cuore e quell’anima.

Ora lo sa.

Ora riesce a sentirli.

Creare storie, in fondo, come senti è semplice.

Era da un po’ che non riprendevo questo computer nero alla domenica, era da un po’ che non mi sedevo a questo tavolo a scrivere. È da quando è uscito il mio nuovo libro forse, che, decidendo di concentrarmi di più sulla promozione, ho “trascurato” la scrittura. Trascurato. Non userei questa parola però. Come si fa a trascurare qualcosa che appartiene a noi nel profondo, come si fa a trascurare qualcosa che –è noi? Non l’ho trascurata. Tutt’altro anzi; l’ho fatta ricaricare, gli ho dato una vacanza. Sì, proprio così, gli ho dato una vacanza. -Non ho scritto- di proposito. E non soltanto per via della promozione di Uno (Sporco) Diario Aperto ma anche perché non volevo più scrivere e aspettare, invece, per farlo, che mi fossi trasferito nella nuova casa. Sentivo, infatti, che il luogo in cui sono ora mi ha già dato tutto quello che doveva. La sua energia si è esaurita, il suo compito è finito. In questa casa è nato il blog, in questa casa è nato il diario, giorno per giorno insieme a voi. In questa casa si sono sviluppati i miei social, il mio rapporto coi followers. In questa casa è nato l’inizio per un futuro nuovo libro. In questa casa ci sono state risa e pianti, gioie e dolori, bottiglie piene, bottiglie vuote e bottiglie rotte. Ma ho bisogno di qualcosa di nuovo prima di ricominciare a scrivere, ho bisogno di vibrazioni nuove da mettere nei miei lavori, nei miei scritti, nei miei libri ed è per questo che ho lasciato il tutto; così che il tutto si ricaricasse. Perché può non sembrare ma scrivere non è facile. Perché può non sembrare ma scrivere non è solo avere un computer e battere due dita sulla tastiera. Non è solo unire qualche letterina, qualche parola e dire ciò che si ha in testa. Non è solo parlare. Scrivere è viaggiare. Scrivere è viaggiare dentro di sé e osservare, sentire, toccare, annusare tutto ciò che si trova lungo la strada. Il bello e il brutto, il puzzolente e il profumato, il male e il bene. Assorbire tutto e poi capirlo. Assorbire tutto e poi dargli forma. Assorbire tutto e poi tradurlo. Assorbire tutto e poi scriverlo. Assorbire tutto, mettersi in gioco, confrontarsi con chi si ha di fronte e poi riassorbire ancora. Un viaggio. E quanto stanchi siamo dopo un viaggio da Milano a Napoli in macchina ad agosto? Quanto stanchi siamo dopo un viaggio d’estate in treno dal nordest della Cina all’Ovest? Con la gente ammassata. Col caldo, con la pioggia, col freddo. Non capendo chi ti è intorno…

Lo stesso vale per l’arte.

Lo stesso vale per la scrittura.

Il tuo sogno è di invecchiare insieme
e tu lo sai,
io non so se saprò esaudirlo.
Chi può dirlo?
In questa vita in cui tutto viene e tutto va.
In questa vita che fa sempre progetti migliori dei nostri…Ma tu sai anche che,
quello che io so, invece,
è che l’eternità non è un tempo senza fine ma un momento senza tempo;
Quando ti bacio,
quando piano al mattino mi avvicino mentre piccola dormi
per dirti che ti amo.
Piccoli insieme
già vecchi dolci
occhi negli occhi.


你的梦想是一起变老
你知道
我不知道我能否实现它。
谁能说?在这个万物来来去去的生活中,它总是有着比我们计划更好的安排……

但你也知道
我所知道的是
永恒不是没有终点的时间,而是没有时间的瞬间;
当我吻你的时候
清晨,当甜蜜的你还在熟睡。我慢慢靠近你,告诉你:我爱你,

此刻,未来
永恒已聚集至此
我的眼在你的眼里,你的眼在我眼里

我们的爱 已然一起变老

Credo che pian piano stiamo arrivando alla fine. Credo che nel subconscio, ormai, quando si tratta di scrivere, i pensieri prendono il sopravvento e mi portano sempre altrove; sempre a fare altro

Ma ho imparato a smettere di combatterli quei pensieri. Dopotutto siamo ciò che siamo, perché farlo? Ho imparato ad accettarli. 

Capisco che vogliono dirmi che ormai è luglio. Capisco che vogliono dirmi che è arrivato il momento di cominciare a scrivere le conclusioni. Capisco che, così come ogni altra cosa in questo mondo, anche questo diario finisce. 

Per quel che finisce voglia dire, poi. 

Finisce.

Cos’è la fine se non la continuazione di un processo? Cos’è la fine se non l’inizio di un qualcosa di nuovo? 
Non è forse la notte parte del giorno e il giorno parte della notte? E non è forse così anche per la vita e la morte? Non nascono forse una dall’altra?

Non è forse un fiume che scorre sempre lo stesso sia in un punto che in un altro? Non siamo forse, in fondo, sempre noi? Quelli di cinque anni fa, quelli di dieci anni fa, quelli di venti anni fa… quelli di domani?!

“We can’t rush the process” mi sto ripetendo ultimamente. Non possiamo accelerare il processo. “And neither we can fight it”, aggiungerei. E neanche possiamo combatterlo

Dopotutto anche noi siamo fiumi che scorrono.

Era da tanto che non piangevo mentre correvo, era da tanto che non riuscivo a lascarmi andare. Poi d’un tratto stamattina è successo. 

Ero vicino a uno dei ponti sulla via del ritorno, correvo ed avevo il sole dell’alba in faccia. Così forte che non riuscivo neanche a tenere gli occhi aperti

Poi ho visto gli alberi muoversi.

Poi ho sentito il vento. 

Poi il pianto.


Era da tanto che non mi sentivo così.

Di recente mi capita spesso di trovarmi a pensare a se sto facendo bene a restare in città. A se sto facendo le scelte giuste. A se non dovrei prendere tutto e lasciare, invece. Poi però sento Coral ripetere i verbi di italiano e dire “finito” alla professoressa. Con quella sua vocina. Poi però vedo un bambino ridere ai bordi del marciapiede, vicino a un albero, mentre con una mano tiene quella grande del nonno stretta e con l’altra indica qualcosa, forse un millepiedi. Come ride. E come ride il nonno! Allora mi è tutto chiaro e la risposta arriva da sé. Cosa importa se sono in città, sull’oceano o sugli Himalaya? La felicità non è fuori, non lo è mai stata e mai lo sarà. Quanto chiaro e semplice è da capire questo quando siamo coscienti, vero? Eppure è negli altri momenti che dovremmo tenere duro, invece. Perché così com’è più facile dire che è una bella giornata quando c’è il sole, così è pure più facile vedere quando si è coscienti. Ma bisogna sforzarsi di vedere anche quando non lo si è. Di ricordare anche quando piove che il bello è dentro, che la felicità è già lì. Che senso ha sennò? Vivere tra lo spegnersi e l’accendersi, tra il vedere e il non vedere…

Posso perciò capire perché di recente mi capita spesso di trovarmi a pensare a se faccio bene a restare in città; siamo in lockdown una settimana sì e una no, ho appena speso seicento mila euro e altre spese continuano a saltare fuori, il telefono mi cade a terra quando non deve cadere, il sole è coperto dalle nubi delle fabbriche, la notte fa caldo, il giorno si suda, lo stomaco è gonfio e gli occhi sono stanchi. Eppure quella vocina piccola è lì. Eppure quel bambino e quel nonno ridono.

“In questo mondo bisogna stare svegli e vigili altro che con i sensi alterati!” È ciò che mi disse il medico di famiglia quando a quindici anni cominciai ad avere i primi dolori alla pancia causati dall’alcolismo pre-adolescenziale. Ma cosa ne potevo mai sapere io, all’epoca, che gli risposi che non cercavo un modo per evadere ma una soluzione per rimanere? Dopotutto parlavamo di due cose diverse. Dopotutto parlavamo due differenti lingue. Ora però posso capire ciò che intendeva. Ora posso capire stare svegli e vigili cosa significava e cosa significa. Ancora credo che avevamo punti di vista differenti ma ora lo ringrazierei per quel consiglio. 


Penso a questo mentre rido bevendo il mio caffè solubile americano stamattina perché una persona ieri mi ha detto che è come se bevessi brodaglia.

Quanto bene ci fanno le parole degli altri se ascoltate quando dette al momento giusto. Quanto? Che un messaggio a volte ci cambia la giornata, che un messaggio a volte ci cambia la vita. Eppure lo facciamo meno di quel che dovremmo perché in fondo mica sono fatti nostri? E sai quante volte l’ho sentito dire? 

Perché dovrei aiutare la cameriera se mi sbaglia l’ordine? Se non sa fare il suo lavoro sono problemi suoi!

Perché dovrei buttare gli avanzi del mio pranzo nel cestino? C’è chi è assunto per pulire a posta!

Perché dovrei lasciar passare quell’imbecille? Io ho la precedenza non lui!

Guarda questa imbranata come parcheggia. Le donne non dovrebbero guidare!

Che m’importa di come mi guardano le persone in un’altra nazione. Mica le rivedrò? 

E potrei continuare all’infinito ma credo di aver reso l’idea. Mica sono fatti nostri? 

Però continuo a dire a Coral e a tutti coloro che mi circondano che, seppur non sono fatti nostri e seppur non è il nostro lavoro rendere questo mondo un posto migliore, farlo non costa nulla. 

Per la cameriera che si fa il culo dodici ore al giorno per chissà che stipendio e che magari di notte studia anche. Per chi ci pulisce il tavolo che sempre uguale a noi è! Per chi oggi corre un po’ di più in macchina perché è in ritardo… o perché è soltanto scemo. Non abbiamo mai corso noi? E parcheggiamo così tanto meglio noi? E non ci da forse fastidio quando da italiani andiamo all’estero e la gente presume che siamo scostumati? Chi credi gli abbia messo quell’idea in testa agli abitanti di quella nazione? Non sono forse stati altri italiani che sono andati lì prima di noi e che non hanno saputo comportarsi perché appunto dicevano: “tanto chi li rivede a questi?”

Ci pensi mai?

Ma quanto ci costa rendere questo mondo un posto migliore che non ci riusciamo? Quanto? 

Perché non è un modo per evadere che ci serve. Non è un modo per evadere che dobbiamo cercare ma una soluzione per restare. Ed è già dentro noi. Davvero non riusciamo a vederla? Davvero non riusciamo a svegliarci?

Di recente sono tornato in fissa con lo shopping. Mi è ripresa quella voglia, quella dipendenza dal volere, volere una cosa in più. Lunedì era una collana di diamanti per Coral, martedì Fendace, mercoledì un orologio francese, ieri delle scarpe che indossavo da piccolo e che hanno rimesso in commercio, oggi sono delle scarpe per la palestra super comode (a detta del commesso) che sto pensando di comprare anche se le palestre sono ancora chiuse e chissà quando riapriranno! Come se fino a ieri (che ancora erano aperte) andavo scalzo, poi. 

Davvero, a volte, nient’altro siamo che bambini che solo vogliono un giro in più di giostra o delle caramelle al bancone della cassa del supermercato. Cosa ci differenzia? Lo schiaffo sulla mano dalla mamma che ci dice no. Perché qui non c’è mamma e se lo schiaffo non ce lo diamo da soli dove va a finire il bello dell’attesa? Il bello dell’aspettare, il bello del desiderare, il bello del capire il vero valore delle cose. Il bello del capire che dovremmo esser più che semplici consumatori. Ho scritto di recente in un post su Instagram:

“Piangevo perché volevo le scarpe poi ho visto un bimbo senza piedi.”

Com’è che ce lo dimentichiamo che esistono? Com’è che non ci dormiamo la notte over stupid things che vogliamo? Eppure moriremmo di diabete se nient’altro mangiassimo che cioccolata. Eppure non staremmo affatto comfortable nella nostra pelle se ogni sera cenassimo hamburgers in un fast food. Eppure non farebbe bene né al matrimonio né a noi stessi scoparsi ogni cosa che si muove…

Mi viene in mente la parola disciplina, ora. 

Disciplina

La disciplina del decidere di mangiare buon cibo quando abbiamo attorno tante altre opzioni che ci tentano. 

La disciplina di dire no quando quelli attorno a noi decidono di essere “nella media.” 

La disciplina di continuare quando fa male 

perché la vita, da che mondo è mondo, non ci ha mai dato quello che vogliamo ma soltanto quello che ci meritiamo. E spesso anche meno. E se non abbiamo lavorato per esso, se non ci siamo mai sacrificati, se non abbiamo dato tutto noi stessi come potremmo mai ottenerlo? 

Se non corriamo come li perdiamo quei kili in più? Se non facciamo gli straordinari, se non troviamo una soluzione alternativa come ce le paghiamo le vacanze? Se non le diciamo che l’amiamo, di tanto in tanto, come nostra moglie dovrebbe ricordarsene? Se non connettiamo con nostro figlio come potremmo mai conoscerlo meglio? 

Da che mondo è mondo, se si vuole salire in alto, si deve prendere la strada in salita. 
O rotolare giù.

La scelta è nostra.

Alla fine ieri non sono proprio riuscito a non bere, caro diario. Non ti dico neanche il perché, perché tanto alla fine una scusa la troviamo sempre quando (non) vogliamo. Però da oggi non ci sono cene programmate in vista e non ci sono neanche più birre in frigo. Il whisky è finito, la vodka anche e la cassa di vino di rosso australiano è bella che andata. Ci sono ancora due bottiglie di baijiu rimaste in credenza, sì, ma sono quelle da quattrocento dollari l’una e il programma è di non aprirle finché non ci trasferiamo in casa nuova per cui… no problem.

I presupposti, come vedi, ci sono tutti.

Vediamo come andrà questa volta. 


Sai, ho letto stamattina che non sempre le persone felici sono grate ma che le persone grate, invece, felici lo sono sempre. Credo sia una bella affermazione ed anche vera, magari. Dopotutto come non essere felici quando si è grati? Grati per i vestiti che indossiamo, grati per la colazione che abbiamo fatto o che stiamo facendo, grati per il pranzo e la cena che ci sono sempre garantiti, grati per la possibilità di scegliere cosa mangiare o cosa no. Grati per il fresco in casa d’estate ed il caldo d’inverno, grati per un tetto che ci copre, per un letto che ci da riposo ed un divano che ci da conforto. Per un computer che ci connette al mondo, un telefono che ci fa perdere tempo quando vogliamo perderlo e che ci fa fare soldi quando vogliamo farli. E ancora grati per la possibilità di scegliere o la prima o l’ultima. La possibilità di camminare, di correre, di parlare, di sentire, di ascoltare, di vedere. Di toccare. Di comunicare liberi. Di poter dire la nostra. Di poter scrivere senza censura. Di poter essere donna e dire che ci siamo appena masturbate senza poi rischiare di essere messe al rogo. Di poter essere uomini e dirlo ugualmente. Di ritrovarci. Di riconnetterci anche se lontani, di darci spazio anche se vicini. Grati per l’aria, per non esser nati in un paese del terzo mondo… perché poteva accadere, sai? Grati per non aver avuto la casa distrutta da una bomba o un figlio morto a causa di un proiettile senza il suo nome sopra. Grati per il caffè vicino, per il cielo chiaro, per il fresco del mattino che piano entra dalla finestra leggermente aperta, per delle lettere, per una parola, per una frase, per una nuova pagina di diario, per un diario. 

Grazie caro diario.