Ricordi quando eri bambino? Quando le cose le facevi, semplicemente. Quando non pensavi mai a, “Quali sono i relativi vantaggi di imparare il calcio rispetto al tennis?” Semplicemente correvi intorno al campetto e giocavi a calcio e tennis. E qualche volta, qualcuno, ha pure mischiato le due cose e creato il calcio-tennis. Pensa! Costruivi castelli di sabbia, giocavi a rincorrersi, facevi domande stupide e cercavi insetti e catturavi farfalle o scavavi buche.

Nessuno ti diceva di farlo, lo facevi semplicemente. Eri guidato solo dalla tua curiosità e dal tuo entusiasmo. 

E la cosa bella era che se odiavi il calcio, smettevi semplicemente di giocarci. Non c’era coinvolto nessun senso di colpa. Non c’era discussione o dibattito. Ti piaceva o non ti piaceva.

E se adoravi cercare insetti, facevi semplicemente quello. Non c’era un’analisi di secondo livello del tipo, “Beh, cercare insetti è davvero ciò che dovrei fare con il mio tempo da bambino? Nessun altro vuole cercare insetti, significa che c’è qualcosa che non va in me? Come influirà cercare insetti sul mio futuro?”

Non c’erano tutte ste “pippe mentali”. Se ti piaceva qualcosa, la facevi. Punto.

“COME TROVO LA MIA PASSIONE?”

Di recente ho ricevuto un messaggio (e non è la prima volta) da una persona che mi diceva di non sapere cosa fare della sua vita. E, come tutte le altre, questa persona mi ha chiesto se avevo qualche idea su cosa potesse fare, da dove iniziare, dove “trovare la sua passione”. 

Ma come rispondo a una domanda del genere? Come rispondo sinceramente a una domanda di questo tipo se NON NE HO LA MINIMA IDEA. Se non hai idea (tu) di cosa fare della tua vita, cosa ti fa pensare che qualcuno che scrive libri e che beve baijiu nei peggiori bar dell’Asia lo possa sapere? Sono uno scrittore, non ancora un indovino.

Ma ancora più importante, quello che voglio dire a queste persone è questo: è proprio quello il punto, “non sapere”. La vita è tutta basata sul non sapere e poi fare qualcosa comunque. Tutto nella vita è così. Tutto. E non sarà più semplice solo perché hai scoperto che ami il tuo lavoro di giardiniere o hai ottenuto un lavoro da sogno come giornalista sportivo, o portaborse di un miliardario, o lustra scarpe di Ronaldo.

Tutti a scrivere libri e a fare film centrati su: “trovare la propria passione”

Che du’ cogl#%ni! Quanto ci vuole ancora per capire che la propria passione l’abbiamo trovata già? Lo sappiamo già cosa ci piace, lo sappiamo già cosa ci fa stare bene. Lo stiamo solo ignorando. Perché davvero, siamo svegli 16 ore al giorno, cosa facciamo col nostro tempo? Facciamo qualcosa, ovviamente. Stiamo parlando di qualcosa. C’è un argomento o un’attività o un’idea che domina una parte significativa del nostro tempo libero, delle nostre conversazioni, delle nostre navigazioni online, e lo domina senza che lo cerchiamo consapevolmente.

La nostra passione è lì, di fronte a noi, la stiamo solo evitando. Per qualche motivo, la stai evitando. Ti stai dicendo, “Beh, sì, amo i videogiochi ma questo non conta. Non si può guadagnare con i videogiochi.”

Ma che ne sai? Ci hai almeno provato?

Il problema non è la mancanza di passione per qualcosa. Il problema è la produttività. Il problema è la percezione. Il problema è l’accettazione.

Il problema è il “Oh, beh, questa semplicemente non è un’opzione realistica,” o “I miei genitori mi ucciderebbero se provassi a farlo, dicono che dovrei fare l’avvocato,” o “È folle, non puoi comprarti una casa con i soldi che guadagni facendo questo.”

Il problema non è la passione. Non è mai la passione. Sono le priorità.

E anche, allora, chi dice che devi guadagnare facendo ciò che ami? Da quando tutti si sentono autorizzati ad amare ogni singolo secondo del loro lavoro? Davvero, cosa c’è di così sbagliato nel lavorare in un impiego normale con colleghi simpatici che ti piacciono e poi perseguire la tua passione nel tempo libero?

Ma che poi, posso confidartelo un segreto?

Ogni lavoro fa schifo a volte.

Shhh!

Non esiste un’attività appassionante di cui non ti stancherai mai, su cui non ti stresserai mai, su cui non ti lamenterai mai. Non esiste. Sto facendo il lavoro dei miei sogni (non mi piace chiamarlo lavoro, ma è per rendere l’idea), e odio ancora più o meno circa il 30% di esso. In alcuni giorni anche di più. Perché sai quanto mi pesa fare ste cavolo di foto e di storie su Instagram per l’algoritmo? E fai la foto al piatto cinese, e fai la foto alla città, e postala a quest’ora, e non postarla al sabato. Davvero, non hai idea di quanto lo odi.

Ma lo faccio.

Perché di nuovo, questa è solo la vita. La questione qui è, ancora una volta, le aspettative. Se pensi di dover lavorare settimane da 70 ore e dormire in ufficio amando ogni secondo di esso, hai visto troppi film americani o letto troppe biografie. Se pensi di doverti svegliare ogni singolo giorno ballando in pigiama mentre tua moglie ti prepara la colazione nuda o tuo marito tutto sorridente ti abbraccia e ti bacia dicendoti che ti ama, mentre ti fa un regalo diverso ogni volta, allora qua chi breve troppo baijiu sei tu! Perché la vita non funziona così.

LA TUA PASSIONE È GIÀ DAVANTI A TE

Ho un amica che, negli ultimi anni, ha cercato di andare avanti lavorando in un locale ogni notte con la speranza di mettere abbastanza soldi da parte per il futuro (così da poter avere abbastanza tempo per trovare la sua passione). Nonostante gli anni di lavoro, però, questo futuro sembra non arrivare mai. E ci sta male. Fisicamente. E mentalmente.

Le cose cambiano, poi, ogni volta che qualcuno le chiede di restaurare qualcosa di vecchio e usato, corroso dagli anni del tempo. Porca miseria, si getta a capofitto come una bambina dietro a un carretto dei gelati. E che lavoro che fa! Rimane sveglia fino alle quattro del mattino perdendosi a lavorare su ogni pezzo e amando ogni secondo.

Ma due giorni dopo è di nuovo, “Paolo, non so proprio cosa dovrei fare.”

Amore mio… quanto vorrei poterti comprare il mondo e darti tutto ciò che desideri, coi. E perdonami se sono duro scrivendoti così in questo blog. Lo sai che é la rabbia di un padre a parlare.

E incontro tante persone come lei. Che non hanno bisogno di trovare la propria passione perché la propria passione li ha già trovati. La stanno solo ignorando. Si rifiutano di credere che sia fattibile. Hanno solo paura di provarci sul serio.

È come un ragazzino timido che entra in un parco giochi e dice: “Beh, i videogiochi sono davvero fighi, ma i calciatori della Serie A guadagnano di più, quindi dovrei forzarmi a giocare a calcio ogni giorno,” e poi torna a casa e si lamenta che non gli piace la ricreazione e il tempo libero.

E questa è una fregatura. Perché a tutti piace la ricreazione. A tutti piace il tempo libero. Il problema è che arbitrariamente scegliamo di limitarci basandoci su alcune idee sbagliate che ci sono entrate in testa sul successo e su cosa dovremmo fare.

Un esempio carino, chiaro, forse, è anche quando mi chiedono consigli su come diventare scrittori.

La risposta é che davvero non sempre lo so.

Da bambino, scrivevo poesie su tovaglioli che poi regalavo a mio padre a colazione. Da adolescente, scrivevo temi che la maestra prendeva e condivideva con le altre insegnanti e le altre classi. Crescendo scrivevo testi rap. Crescendo un po’ in più, e capendo che non sapevo cantare, ho ripreso a scrivere poesie. Poi racconti. Poi libri.

Non ho mai considerato la scrittura come una potenziale carriera. Non l’ho nemmeno considerata un hobby o una passione. Per me, le cose su cui scrivevo erano la mia passione (che poi erano e sono la mia vita): amore, odio, rabbia, strada, dolori, amici persi, fidanzatine, sesso, droghe, viaggi, anime perse, anime ritrovate, alcolismo, riscatto, soldi, soldi persi, soldi riguadagnati, case abbandonate, overdosi, amanti, amanti che mi amano, amanti che solo vogliono cinquecento euro ogni due ore, locali aperti, locali chiusi, risse, commissariati, tirapugni, armi nascoste, motorini rubati, schiaffi presi, schiaffi dati, aziende aperte, università, lauree, scelte manageriali, riunioni, contratti, eventi, un matrimonio. Scrivere era solo qualcosa che facevo perché mi andava. E alla scrittura andavo io.

E quando ho dovuto cercare una carriera di cui potermi innamorare, non ho dovuto guardare lontano. In realtà, non ho dovuto guardare affatto. Mi ha scelto, appunto, in un certo senso. Era già lì. Già qualcosa che facevo ogni giorno, fin da bambino, senza nemmeno pensarci.

Perché ecco un altro punto che potrebbe far storcere il naso ad alcune persone: se devi cercare ciò di cui sei appassionato, probabilmente non ne sei affatto appassionato.

Se sei appassionato di qualcosa, quel qualcosa avrà già l’aspetto di una parte così radicata della tua vita che dovrai essere ricordato dalle persone che non è normale, che altre persone non sono così.

Un bambino non entra in un parco giochi e si chiede: “Come posso trovare il divertimento?” Va semplicemente e si diverte.

Se devi cercare ciò che ti piace nella vita, allora non godrai di nulla. E la verità è che già ti piacciono delle cose. Già ti piacciono molte cose. Stai solo scegliendo di ignorarle.

“Non ti piace la scuola? Se non studi ti mando a lavorare!”

L’avete mai sentita questa espressione? L’hanno mai usata con te i tuoi genitori? L’hai mai usata con i tuoi figli? È un’espressione che avevo dimenticato. Un’espressione che, chissà perché, si era nascosta da qualche parte in fondo nel mio cervello. Nei meandri della mia piccola memoria. Non che i miei genitori l’abbiano mai usata con me, no, ma ho avuto tanti amici a cui i genitori gliela ripetevano in continuazione. “Non ti piace la scuola? Se non studi ti mando a lavorare!”

L’ho risentita di recente in un incontro genitori-figli-insegnanti in una scuola in cui sono stato invitato per raccontare la mia storia e per raccontare come, lo studio nella mia vita, mi abbia permesso di raggiungere la posizione in cui sono adesso. Poco sapevano, però, quegli insegnanti e genitori quando mi hanno invitato che, in realtà, non la penso proprio come la pensano loro. “Sì, lo studio sui libri di certo mi ha permesso di raggiungere la posizione in cui sono adesso. Di certo mi ha dato tre lauree e di certo è grazie a quello studio se sono diventato manager molto giovane e se ho aperto un azienda high-tech e ne sono diventato il CTO. Di certo è anche grazie allo studio se ho conoscenze sulla luce biologica benefica per l’uomo (la mia azienda si occupa infatti di tecnologie di luce circadiana), e di certo è grazie anche allo studio se sono arrivato in Cina nel modo in cui ci sono arrivato (sono stato infatti portato qui da una doppia laurea tra il Politecnico di Milano e l’università aerospaziale di Pechino). Ma non è di certo solo grazie allo studio se sono chi sono.

Ho iniziato più o meno così il mio discorso. Poi continuato.

“Crescendo, ho imparato che le istituzioni danno troppa importanza ai test. Ho imparato che i genitori danno troppa importanza ai test. Ho imparato che sempre più professori danno troppa importanza ai test. Ho imparato che, poi, con tutta questa attenzione e importanza che si dà ai test, si finisce col lasciare soli gli studenti. Si finisce col creare un futuro uguale al passato, con burattini e robot che non sanno prendere decisioni e che faranno gli stessi errori che sono stati fatti da chi c’era prima. Tutti uguali.

Ma non solo questo.

Si finisce col dare pressioni agli studenti che si trovano in un età che già di per sé gliene dà. In una età così sensibile, così capace di sentire, così capace di vedere ogni sfumatura del mondo e ogni sfumature di ciò che li circonda. Si finisce col veder ragazzi lanciarsi da un ventesimo piano solo perché non passano un test!

Ora voglio aprire una piccola parentesi perché credo sia importante al fine di capire quello che ho appena detto. Di solito non seguo né la cronaca né tanto meno le notizie generali. Se so certe cose, infatti, è perché le vedo e le ho viste. Ero infatti fuori alla mensa dell’università, quando, dall’atrio dell’edificio principale della scuola accanto, ho sentito un tonfo. E, prima ancora di andare a vedere cosa fosse, chissà perché, già lo sapevo. Le cose, quando cadono, emettono un suono diverso rispetto alle persone.

Da quel tonfo avevo già capito di cosa si trattava. E non so in Italia come funziona adesso, vivo in Asia ormai da quasi dieci anni. Ma qui il sistema scolastico è molto severo, molto rigido. C’è un esame nella carriera da studente dei giovani che gli determina l’intero futuro. A seconda del punteggio che prendono a quell’esame possono andare o meno all’università, possono fare o meno un determinato tipo di lavoro, possono andare o meno in una determinata città. Ma non solo questo. Intorno a quell’esame, infatti, si crea un mostro nella testa dei ragazzi. Perché i genitori continuano a ripetergli che devono superarlo per cambiare il futuro della famiglia. Perché i maestri gli ripetono che devono superarlo per fare i soldi da grandi. Perché in questa società non si può perdere, si può solo vincere. Ed è così che succede quello che succede. Risultato di ragazzi rotti. Abituati solo a vincere, quando si perde, poi, si salta. Ci si taglia. Ci si strangola. Esistono medicine adesso, anche. Le si prendono.

Ma voglio chiudere questa parentesi, adesso. Magari in un altro blog ne riparliamo.

“Perciò, credo sì che i test siano importanti. Credo sì che i vostri genitori abbiano ragione e che dovete starli a sentire. Credo sì che i professori vadano rispettati ed ascoltati perché non stanno lì a perdere tempo. Credo sì, tutto questo. Ma credo anche che, quanto è bello non passare un test? Quanto è bello prendere un due, un impreparato ad un interrogazione? Quanto è bello scappare di casa con la fidanzata? Farsi consolare per quel due, consolarla se ha preso una nota. Quanto è bello perdere? Quanto è bello cadere? Quanto è bello rialzarsi, e fare il callo, ed imparare, che, in questa vita si cade. E lasciarsi andare. E non dargli peso. Perché va bene così.

Lo studio, sì, di certo mi ha aiutato e permesso di raggiungere la posizione in cui sono adesso ma non è stata l’unica cosa. Take two educations, diceva un film. One from the school, one from the street. Prendi due educazioni, due diplomi. Una dalla scuola, una dalla strada. Dalla vita…

È a questo punto, più o meno, che qualcuno ha detto: “se mio figlio non va bene a scuola, lo mando a lavorare!” Ed è a questo punto, più o meno, che quell’espressione, nascosta da qualche parte in fondo nel mio cervello, nei meandri della mia piccola memoria, è tornata.

“Se non ti piace la scuola, se non vai bene a scuola, se non vai a scuola, ti mando a lavorare!” Ma quanto è brutta questa espressione? Ma quanto bene può fare un espressione del genere a degli adolescenti? Ma che risultato mai può avere? Davvero non lo capiamo che, dicendo così, l’unico risultato che otteniamo è far credere al ragazzo, o alla ragazza, che il lavoro è qualcosa di negativo, una punizione? Ma davvero non lo capiamo che dicendo così l’unico risultato che otteniamo è un futuro di persone annoiate e tristi che fanno quello che fanno solo perché devono? Morti vivi. Morti in piedi. Quanti ne vedo in metropolitana al mattino? Quanti ne ho visti a Milano? Quanti a Roma? Quanti ne ho visti a New York? Quanti ne ho visti a Pechino, a Tokyo, a Singapore, a Bangkok, a Washington, a Barcellona, a Casalpusterlengo. Quanti?


“Non ti piace la scuola? E cosa vorresti fare?”

“Il giocatore di basket professionista.”

“Sì? Ti piace il basket?”

“Sì.”

“E perché non me lo hai mai detto prima?”

“Non so perché non te l’ho detto. Credevo lo avessi capito.”

“E infatti avrei dovuto capirlo. È vero. Non ho prestato abbastanza attenzione. Mi dispiace. Allora facciamo così. Domani andiamo a vedere una scuola di Basket. Ci iscriviamo e cominci gli allenamenti. Nel frattempo, però, finisci l’anno e poi a settembre prendiamo una decisione. Cosa ne dici? Perché tu forse non lo sai ancora ma, tante scuole danno borse di studio agli sportivi. Praticamente ti pagano per entrare nella loro squadra di basket. È così che hanno cominciato tanti grandi giocatori dell’NBA, sai?”


Ma è così difficile parlare con i propri figli? Ma è così difficile imparare ad ascoltarli piuttosto che a dirgli: “Non ti piace la scuola? Se non studi ti mando a lavorare!”?