Non ti piace la scuola? Se non studi ti mando a lavorare!

Se non ti piace la scuola ti mando a lavorare _ articolo provocatorio di Paolo Cuciniello

“Non ti piace la scuola? Se non studi ti mando a lavorare!”

L’avete mai sentita questa espressione? L’hanno mai usata con te i tuoi genitori? L’hai mai usata con i tuoi figli? È un’espressione che avevo dimenticato. Un’espressione che, chissà perché, si era nascosta da qualche parte in fondo nel mio cervello. Nei meandri della mia piccola memoria. Non che i miei genitori l’abbiano mai usata con me, no, ma ho avuto tanti amici a cui i genitori gliela ripetevano in continuazione. “Non ti piace la scuola? Se non studi ti mando a lavorare!”

L’ho risentita di recente in un incontro genitori-figli-insegnanti in una scuola in cui sono stato invitato per raccontare la mia storia e per raccontare come, lo studio nella mia vita, mi abbia permesso di raggiungere la posizione in cui sono adesso. Poco sapevano, però, quegli insegnanti e genitori quando mi hanno invitato che, in realtà, non la penso proprio come la pensano loro. “Sì, lo studio sui libri di certo mi ha permesso di raggiungere la posizione in cui sono adesso. Di certo mi ha dato tre lauree e di certo è grazie a quello studio se sono diventato manager molto giovane e se ho aperto un azienda high-tech e ne sono diventato il CTO. Di certo è anche grazie allo studio se ho conoscenze sulla luce biologica benefica per l’uomo (la mia azienda si occupa infatti di tecnologie di luce circadiana), e di certo è grazie anche allo studio se sono arrivato in Cina nel modo in cui ci sono arrivato (sono stato infatti portato qui da una doppia laurea tra il Politecnico di Milano e l’università aerospaziale di Pechino). Ma non è di certo solo grazie allo studio se sono chi sono.

Ho iniziato più o meno così il mio discorso. Poi continuato.

“Crescendo, ho imparato che le istituzioni danno troppa importanza ai test. Ho imparato che i genitori danno troppa importanza ai test. Ho imparato che sempre più professori danno troppa importanza ai test. Ho imparato che, poi, con tutta questa attenzione e importanza che si dà ai test, si finisce col lasciare soli gli studenti. Si finisce col creare un futuro uguale al passato, con burattini e robot che non sanno prendere decisioni e che faranno gli stessi errori che sono stati fatti da chi c’era prima. Tutti uguali.

Ma non solo questo.

Si finisce col dare pressioni agli studenti che si trovano in un età che già di per sé gliene dà. In una età così sensibile, così capace di sentire, così capace di vedere ogni sfumatura del mondo e ogni sfumature di ciò che li circonda. Si finisce col veder ragazzi lanciarsi da un ventesimo piano solo perché non passano un test!

Ora voglio aprire una piccola parentesi perché credo sia importante al fine di capire quello che ho appena detto. Di solito non seguo né la cronaca né tanto meno le notizie generali. Se so certe cose, infatti, è perché le vedo e le ho viste. Ero infatti fuori alla mensa dell’università, quando, dall’atrio dell’edificio principale della scuola accanto, ho sentito un tonfo. E, prima ancora di andare a vedere cosa fosse, chissà perché, già lo sapevo. Le cose, quando cadono, emettono un suono diverso rispetto alle persone.

Da quel tonfo avevo già capito di cosa si trattava. E non so in Italia come funziona adesso, vivo in Asia ormai da quasi dieci anni. Ma qui il sistema scolastico è molto severo, molto rigido. C’è un esame nella carriera da studente dei giovani che gli determina l’intero futuro. A seconda del punteggio che prendono a quell’esame possono andare o meno all’università, possono fare o meno un determinato tipo di lavoro, possono andare o meno in una determinata città. Ma non solo questo. Intorno a quell’esame, infatti, si crea un mostro nella testa dei ragazzi. Perché i genitori continuano a ripetergli che devono superarlo per cambiare il futuro della famiglia. Perché i maestri gli ripetono che devono superarlo per fare i soldi da grandi. Perché in questa società non si può perdere, si può solo vincere. Ed è così che succede quello che succede. Risultato di ragazzi rotti. Abituati solo a vincere, quando si perde, poi, si salta. Ci si taglia. Ci si strangola. Esistono medicine adesso, anche. Le si prendono.

Ma voglio chiudere questa parentesi, adesso. Magari in un altro blog ne riparliamo.

“Perciò, credo sì che i test siano importanti. Credo sì che i vostri genitori abbiano ragione e che dovete starli a sentire. Credo sì che i professori vadano rispettati ed ascoltati perché non stanno lì a perdere tempo. Credo sì, tutto questo. Ma credo anche che, quanto è bello non passare un test? Quanto è bello prendere un due, un impreparato ad un interrogazione? Quanto è bello scappare di casa con la fidanzata? Farsi consolare per quel due, consolarla se ha preso una nota. Quanto è bello perdere? Quanto è bello cadere? Quanto è bello rialzarsi, e fare il callo, ed imparare, che, in questa vita si cade. E lasciarsi andare. E non dargli peso. Perché va bene così.

Lo studio, sì, di certo mi ha aiutato e permesso di raggiungere la posizione in cui sono adesso ma non è stata l’unica cosa. Take two educations, diceva un film. One from the school, one from the street. Prendi due educazioni, due diplomi. Una dalla scuola, una dalla strada. Dalla vita…

È a questo punto, più o meno, che qualcuno ha detto: “se mio figlio non va bene a scuola, lo mando a lavorare!” Ed è a questo punto, più o meno, che quell’espressione, nascosta da qualche parte in fondo nel mio cervello, nei meandri della mia piccola memoria, è tornata.

“Se non ti piace la scuola, se non vai bene a scuola, se non vai a scuola, ti mando a lavorare!” Ma quanto è brutta questa espressione? Ma quanto bene può fare un espressione del genere a degli adolescenti? Ma che risultato mai può avere? Davvero non lo capiamo che, dicendo così, l’unico risultato che otteniamo è far credere al ragazzo, o alla ragazza, che il lavoro è qualcosa di negativo, una punizione? Ma davvero non lo capiamo che dicendo così l’unico risultato che otteniamo è un futuro di persone annoiate e tristi che fanno quello che fanno solo perché devono? Morti vivi. Morti in piedi. Quanti ne vedo in metropolitana al mattino? Quanti ne ho visti a Milano? Quanti a Roma? Quanti ne ho visti a New York? Quanti ne ho visti a Pechino, a Tokyo, a Singapore, a Bangkok, a Washington, a Barcellona, a Casalpusterlengo. Quanti?


“Non ti piace la scuola? E cosa vorresti fare?”

“Il giocatore di basket professionista.”

“Sì? Ti piace il basket?”

“Sì.”

“E perché non me lo hai mai detto prima?”

“Non so perché non te l’ho detto. Credevo lo avessi capito.”

“E infatti avrei dovuto capirlo. È vero. Non ho prestato abbastanza attenzione. Mi dispiace. Allora facciamo così. Domani andiamo a vedere una scuola di Basket. Ci iscriviamo e cominci gli allenamenti. Nel frattempo, però, finisci l’anno e poi a settembre prendiamo una decisione. Cosa ne dici? Perché tu forse non lo sai ancora ma, tante scuole danno borse di studio agli sportivi. Praticamente ti pagano per entrare nella loro squadra di basket. È così che hanno cominciato tanti grandi giocatori dell’NBA, sai?”


Ma è così difficile parlare con i propri figli? Ma è così difficile imparare ad ascoltarli piuttosto che a dirgli: “Non ti piace la scuola? Se non studi ti mando a lavorare!”?

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