Di recente mi capita spesso di trovarmi a pensare a se sto facendo bene a restare in città. A se sto facendo le scelte giuste. A se non dovrei prendere tutto e lasciare, invece. Poi però sento Coral ripetere i verbi di italiano e dire “finito” alla professoressa. Con quella sua vocina. Poi però vedo un bambino ridere ai bordi del marciapiede, vicino a un albero, mentre con una mano tiene quella grande del nonno stretta e con l’altra indica qualcosa, forse un millepiedi. Come ride. E come ride il nonno! Allora mi è tutto chiaro e la risposta arriva da sé. Cosa importa se sono in città, sull’oceano o sugli Himalaya? La felicità non è fuori, non lo è mai stata e mai lo sarà. Quanto chiaro e semplice è da capire questo quando siamo coscienti, vero? Eppure è negli altri momenti che dovremmo tenere duro, invece. Perché così com’è più facile dire che è una bella giornata quando c’è il sole, così è pure più facile vedere quando si è coscienti. Ma bisogna sforzarsi di vedere anche quando non lo si è. Di ricordare anche quando piove che il bello è dentro, che la felicità è già lì. Che senso ha sennò? Vivere tra lo spegnersi e l’accendersi, tra il vedere e il non vedere…
Posso perciò capire perché di recente mi capita spesso di trovarmi a pensare a se faccio bene a restare in città; siamo in lockdown una settimana sì e una no, ho appena speso seicento mila euro e altre spese continuano a saltare fuori, il telefono mi cade a terra quando non deve cadere, il sole è coperto dalle nubi delle fabbriche, la notte fa caldo, il giorno si suda, lo stomaco è gonfio e gli occhi sono stanchi. Eppure quella vocina piccola è lì. Eppure quel bambino e quel nonno ridono.