Stavo sistemando e riordinando tutte le email e i messaggi che ho ricevuto in questo anno e mezzo da parte di chi mi ha conosciuto prima come scrittore che come persona. Ce ne sono davvero tanti e sono grato ogni giorno per tutto quello che mi sta accadendo e per tutto quello che ho fatto accadere.

Ho deciso di condividerne qualcuno con voi. Per farvi capire quanto è grande e quanto è forte l’energia che mi arriva ogni volta. Per farvi capire cos’è che mi spinge a condividere i fatti miei senza che nessuno me lo avesse chiesto in principio.

Siamo tutti sulla stessa barca e spesso ce lo dimentichiamo… eppure sarebbe così facile ricordarselo, se solo volessimo…

Mi dispiace che ho deciso di conservarli troppo tardi questi messaggi… così come le foto dei lettori con i miei libri. Ho l’abitudine di cancellare sempre tutto giorno per giorno e di tanto in tanto me ne pento; ma è sempre tutto dentro ed è quello che più conta. Quello è ciò che resta.

Ecco qui i messaggi.

Lettore:

Buongiorno Paolo,

mi trovo al mio PC e ho un pensiero che mi tormenta da un po’…

Vorrei dare un grande impatto alla mia società, solo che non ho mai fatto il “comune” volontariato, dando una vera mano e poiché sono cresciuta con l’idea che le comunità forti sono essenziali per una società fiorente, vorrei fare qualcosa di più concreto. Ho fatto una specie di analisi interiore e brevemente ti dico che, quando si presenta l’occasione, porto la mia testimonianza di (censurato per far anonimità), provando ad incoraggiare chi mi ascolta, fino all’avvento del virus sono stata parte attiva della parrocchia vicino casa, dove ho dato una mano ai bambini nei laboratori creativi e nel catechismo e sto coltivando progetti di imprenditorialità e di conseguenza ho fatto attività di mentoring a distanza e, all’occorrenza, ho aiutato nelle difficoltà e nei compiti le persone che mi circondavano (anche quando non ero completamente nelle condizioni di poterlo fare). Ora sì, potrebbero sembrare solo chiacchiere (o almeno a me lo sembrano) e con ciò non avevo intenzione di autocelebrarmi, perché non ne avverto la necessità, però al di là di questa esclusiva realizzazione personale nell’aver donato il mio contributo, sento di poter donare molto di più. Cerco di rendermi sempre molto disponibile, però non so… dovrei iscrivermi a qualche partito politico giovanile? Dovrei partecipare a qualche evento di volontariato giovanile? Dovrei aiutare più anziani ad attraversare la strada? Mi rivolgo a te con questo pensiero, perché con la tua testimonianza “you made my day” (in italiano non rendeva molto quello che volevo trasmetterti), mi hai dato molto su cui riflettere e vorrei “lasciare il segno” un po’ come hai fatto tu e spero che l’aver letto queste mie parole possa aver trasmesso un po’ della mia gratitudine nei tuoi confronti, affinché tu possa essere super consapevole di aver dato un contributo fondamentale a noi ragazzi quel giorno. Potresti dirmi cosa ne pensi secondo il tuo punto di vista? Cosa faresti se fossi al mio posto?

Ti ringrazio per l’attenzione e per la pazienza che hai nei miei confronti.

Questo è un messaggio che ho ricevuto e che ho letto in un “momento no” della giornata, quel giorno. E sapete cosa è successo dopo che l’ho letto? La giornata mi è cambiata! Ed è allora che mi è tornato in mente che davvero possiamo muovere energie che fanno bene al mondo con le nostre azioni e le nostre parole… e il nostro volere.

La mia risposta:

Sai, volevo risponderti in qualche “spacco” della giornata ma questo messaggio non potevo farlo aspettare tanto. 

Ti faccio una domanda. Tu come stai? Davvero intendo. Come ti senti? 

La risposta è fondamentale qui. Perché se stai bene, se sei felice, allora sei luce. E una luce non la metti nello stipo, al chiuso, dico bene? La metti al centro della strada, in alto. Cosicché tutti possano usufruirne sul loro cammino. Quello accade a noi quando stiamo bene. Quando stiamo bene dentro, non conta se facciamo volontariato o se facciamo la carità o se andiamo in africa o se facciamo manifestazioni per la pace o doniamo il sangue, o quant’altro. Non conta. Perché siamo luce. E allora il sorriso che facciamo a noi stessi al mattino è un contributo superiore al mondo, il sorriso al vicino è un contributo superiore al mondo, un momento di comprensione e perdono, senza alimentare il fuoco, a chi ci tratta male è un contributo superiore al mondo. Se ognuno pulisse il vialetto davanti la propria casa, il mondo sarebbe pulito. E tenere pulito il vialetto davanti la propria casa vuol dire proprio coltivare e crescere con amore e positività. Essere luce. Davvero sembra scontato, ma davvero credimi non lo è. Perché il mondo e le persone col tempo, crescendo, diventano tristi. E si arrendono. E si spengono. Lo vedo. Lo vivo. 

Quello che tu dici è bellissimo. Perché aiutare il prossimo è qualcosa che ci eleva. È qualcosa che va oltre il semplice vivere. Ce lo insegna Gesù anche, no? Quindi non stare troppo a pensarci. Non lasciare che questi pensieri ti tormentino. Lo so come sono, possono far anche male a volte. Vogliamo così tanto le croci degli altri o quanto meno aiutarli a portarle che stiamo male proprio. Ma le loro croci sono le loro croci. Non c’è nulla da fare. Fidati. Ma appunto, se siamo luce, possiamo aiutarli a vedere durante il cammino. Quello è il più grande aiuto che possiamo dare. 

In Gratitudine

PC

La conversazione poi è continuata ma penso di aver detto abbastanza per farvi capire quanto è importante ascoltarsi, e parlarsi; quanto è importante capire che siamo tutti sulla stessa barca.

Sarebbe così facile ricordarselo, se solo volessimo.

Come aiutare il prossimo, ti chiedi? Sarebbe così facile…

Qualche mesetto fa avevo cominciato a registrare e a pubblicare dei video risposta alle domande che mi ponevate. Domande di qualunque tipo. Era divertente e cominciavo a prenderci gusto. Li pubblicavo su Instagram (che ora non ho più) e il riscontro fu davvero positivo. È allora che mi resi conto, ancora una volta, di quanto poi siamo tutti simili. Con le stesse domande, gli stessi dubbi, gli stessi problemi. A volte ce ne dimentichiamo ma davvero tutte le persone che incontriamo hanno paura di qualcosa, amano qualcosa e hanno perso qualcosa… come tecome me. E ci sarebbe così tanto da dire a riguardo e forse l’ho già fatto anche, ma non è quello di cui voglio parlare oggi. Oggi voglio proseguire con l’argomento “domande e risposte”, invece. Questo perché uno di voi mi ha chiesto: “Come scrivere un libro?” La domanda mi è piaciuta e direi che somiglia un po’ ad una di quelle domande da un milione di dollari, dico bene?

Come scrivere un libro?

Non credo ci sia solo una risposta corretta a questa domanda. Solo pensandoci ora, mentre siedo nel Parco Olimpico al Nord di Pechino, sotto a un grande albero che mi fa ombra, me ne vengono in mente due. Vediamo se riesco a esporle.  

  1. Per scrivere un libro devi aprirti e non devi avere paura di farlo. Che tu voglia scrivere con la testa (seguendo l’onda del momento, il genio, le statistiche che ti dicono di puntare sui vampiri piuttosto che sulle storie d’amore fantastiche a lieto fine, sulle cose erotiche che hai visto solo in finti porno con bravi attori, per fare più click) o che tu voglia scrivere con l’anima (non fregandotene un caz** delle statistiche, delle cover accattivanti, del trend, ma contando invece di come non ti fa sentire scrivere determinate cose e di come ti fa sentire non scriverne altre), in entrambi i casi devi aprire o l’una o l’altra; o la testa o l’anima. Non scrivi nulla se resti chiuso; se non segui quell’emozione, quella lucina, quella piccola idea che è ancora solo una scintilla. Non scrivi nulla se non cogli quel fiore uccidendolo…  non scrivi nulla se non è quello che davvero vuoi. Questo se vuoi scrivere un libro con le parole. Perché poi puoi scriverlo anche senza, restando in silenzio. Scrivendo nella vita delle persone ascoltandole invece che facendole leggere. Anche quella è arte. Anche quello è scrivere. E forse ancora più nobile.

Questa è la prima risposta che mi viene in mente.

  1. La seconda, invece, si può dire che sia quella “tecnica”. Quindi non: considerando lo scrivere un libro dal punto di vista di ciò che accade dentro di noi ma, considerando lo scrivere un libro per l’atto in sé. Per l’atto di sedersi e scrivere velocemente senza blocchi o senza “mancanze di voglia”. Innanzitutto, come prima cosa, per fare ciò ti dico:
    • togli le distrazioni di mezzo! È la cosa più importante senzadubbiamente. So che ai giorni d’oggi ci distraiamo da appena svegli e che stiamo sui social pure mentre ci stanno facendo del sesso orale, perché “dobbiamo registrarlo altrimenti non è reale”, ma quando scrivi, se vuoi scrivere, spegni il telefono. Spegni i social, chiudili. Spegni internet. Mutizza le email o le app che si aprono in automatico sul computer (se è lì che scrivi). Togli di mezzo persino la musica se pensi che non ti possa essere d’aiuto (questo credo sia soggettivo. Io personalmente preferisco scrivere senza musica ma conosco chi invece ascolta quella classica ad esempio, o quella elettronica, pensa! Musica senza parole comunque dicono che aiuti).
    • Stai comodo! Siedi comodo, scegli e sta’ in un ambiente comodo, rilassante. Inutile spremerti le meringi e “pushare” te stesso oltre il limite senza ragione se l’ambiente in cui sei non ti trasmette le giuste vibrazioni. Se ci sono rumori o lavori in corso o bimbi che piangono che in quel momento ti danno fastidio, chiudi tutto. Rimanda. Diventa frustrante e spiacevole l’esperienza in quel caso. Ti lascerà solo un brutto ricordo e molto probabilmente anche qualche traccia di sensi di colpa. Non stai comodo? Chiudi tutto. Con calma. È meglio così.
    • Altra cosa credo sia importante per scrivere un libro, se non sei un freestyler come me, è proporti degli obiettivi. Che siano settimanali o giornalieri, o persino “orari” (se è così che si dice), non ha importanza. Ma programmarsi in anticipo cosa, quanto e quando scrivere, con degli obiettivi chiari, può essere d’aiuto quando ci si sente bloccati. Un po’ come ci è d’aiuto un piano della giornata o una lista delle cose da fare (a proposito di programmarsi la giornata ne abbiamo parlato nelle pagine del diario del 25 Settembre e del 26 Settembre 2021. Lì trovi anche un esempio semplice di come farlo). Programmarsi la scrittura stabilendo un paragrafo al giorno o il tempo di scrittura, stabilendo due ore al mattino, non sembra ma possono fare la differenza nella tua esperienza di scrivere un libro. E una volta finito quell’obiettivo? Stop! Fermati. Non andare oltre. Domani riprenderai. Meglio fermarsi quando la luce è forte piuttosto che quando è finita del tutto. In questo modo anche la motivazione resta perché non la esauriamo nell’arco di una sola “seduta” e in più, abbiamo più tempo a disposizione per ricapitolare cosa abbiamo fatto fino a quel momento. Fidati, fare ciò è di grande aiuto quando ti senti perso e spaesato.
    • Scrivere ogni giorno. Esatto! Per scrivere un libro, o anche solo per automigliorarsi nella scrittura o per finire qualche opera a cui teniamo, serve scrivere ogni giorno. Anche solo una parola. Anche solo una frase. Anche solo un paragrafo. Cosi rendiamo lo scrivere una specie di routine della giornata ed entriamo in quell’ottica dello scrittore. Come quando decidiamo che dalle 19 alle 20 dobbiamo andare in palestra (diventando sportivi) o dopo cena a fare una passeggiata per digerire (diventando più salutari). Non deve essere una cosa fastidiosa, di disconforto, di pressione. Dev’essere una routine che deve darti, non toglierti. Prendi me ad esempio. Alle 4.30 ogni mattina mi sveglio e sta’ sicuro che prima di andare al lavoro alle 9.30, ho già scritto qualcosa. Che sia una pagina del Diario Aperto, che sia un nuovo articolo, che sia una nuova idea o una poesia o un messaggio, sta’ sicuro che l’ho fatto. Trova un tuo spazio della giornata. Un momento in cui, tornando a ciò che abbiamo detto prima, possiamo rendere ancora più facile il togliere le distrazioni di mezzo.

Poi cos’altro? Mmm.

Non credo mi venga altro in mente al momento. Anche perché, restando in tema, sono stato distratto e interrotto poco fa da una passante che si è fermato a parlare. Infatti quest’ultimo pezzo non lo sto scrivendo più dal Parco Olimpico ma dalla metro. Vedi com’è facile interrompere il flusso di un’idea? Fossi stato interrotto prima probabilmente non avrei neanche scritto questo articolo. Va’ seguita subito la luce finché c’è… perché poi svanisce. È così.

Le parole che volevo dedicarti eran come fiori. 
Son morte nel momento in cui le ho colte per scriverle, e dartele. 
Ora sono su di un foglio ma senza vita. Vuote. 
Ti prego comprendine il valore, cogline il senso. 
Perché con coscienza le ho private del respiro per te.

E chissà se mai le leggerai quando arriverai. Magari sarò già andato, già ripartito. Magari, chissà. Ma te le lascio su di un tavolo, su di un tovagliolo. Te le lascio a terra, tra i piedi nudi e il suolo. Te le lascio sulla spiaggia, sull’incanto di un’onda… e poi di un’altra. Te le lascio sulla montagna, nella vita di un respiro. Te le lascio nel silenzio, nella pace. E anche nella solitudine. Te le lascio nel vento, su di un brivido. Te le lascio nella vita, nelle pause tra un respiro e l’altro che farai. Alla fine di un inspiro. Alla fine di un espiro. Te le lascio nella morte, nel suo mistero e nella sua scoperta. Nel suo significato di vita che ha. 

Ti prego comprendine lì il valore, lì cogline il senso.

Mi sono svegliato con un ricordo in testa questa mattina e sento che voglio condividerlo con voi. Questo ricordo mi ha riportato indietro a forse nove anni fa. Ero in un momento “molto perso” della mia vita; vivevo passando da un eccesso all’altro e sembrava lo stessi facendo da così tanto tempo che era diventata quella la mia realtà ormai, il mio equilibrio. Mi trovavo in una spirale di dipendenze che continuava a rompermi in qualche modo, pezzo dopo pezzo. Non dormivo per più notti consecutive più a lungo di quanto si dovrebbe, uscivo ogni giorno, cercando di essere costantemente impegnato più del dovuto, mi allenavo e correvo ogni sera più di quanto il corpo potesse sopportare, uscivo, più di quanto il respiro potesse sopportare. Ero in uno stato di permanente accelerazione e sentivo… e sapevo… che dovevo fermarmi perché stanco. Ma me ne accorgevo solo quando all’improvviso mi ritrovavo all’interno di un supermercato senza alcuna idea di come fossi arrivato lì, con una lista di cose da comprare nella testa svanita, e la musica, e le luci, e le voci, di chi passava attorno e affianco. Uscivo poi da lì senza comprare nulla in quei casi. Perso. Con la testa completamente blank, vuota. Iniziavo col pensare che c’era qualcosa che non andava con me, che c’era qualcosa che non andava dentro di me. Che avevo qualche problema. Ma mi stavo semplicemente rompendo, pezzo dopo pezzo. Potevo rimettere le cose insieme? Potevo aggiustarmi? Non ne avevo idea! E nel momento in cui cominciavo col chiedermelo, quei pensieri svanivano e si volatilizzavano nello stesso modo e con la stessa velocità in cui erano arrivati e materializzati. E la giostra continuava a girare. Uscivo di più, dormivo di meno, correvo di più, riposavo di meno, mangiavo di più, mangiavo di meno, non mangiavo affatto. Forse soffro d’insonnia, pensavo. La realtà cominciava con il sembrare surreale. Le notti non passavano mai, i giorni sembravano infiniti. Ci si mise la noia anche di mezzo e allora più veloce, facevo il doppio. E poi il triplo. Ma eventualmente anche quello cominciava a darmi noia. Eventualmente anche per quelle cose perdevo il gusto… ero pieno di vita ma nel senso negativo. Nel senso di disgustato. Così pieno che ero pronto a vomitare… ma non avevo il coraggio di mettere quelle due dita in gola.

Mi ritrovai in un altro stato di vuoto un giorno, come capitava spesso che mi ritrovavo nei supermercati, ma in una via deserta quella volta, al centro della strada. Come ci ero finito lì? Non ne avevo idea. Ma continuai a camminare ancora, non curante delle macchine che potevano passare ma che non passarono. Alla fine di quella strada intravidi una croce, una Chiesa. Era da tanto che non ne vedevo o che non ne entravo in una. Era da tanto che non pregavo neanche, a dir la verità. Così decisi di farlo. Un senso di liberazione mi avvolse non appena misi piede in quel portone. Tutto mi scivolò di dosso. Quell’odore d’incenso mi entrò nelle narici e dentro il corpo e quel senso di pienezza disgustoso di vita uscì fuori. Lincenso divenne quelle due dita. Cominciai a piangere. Cominciai a piangere e decisi di sedermi all’ultimo banco in fondo ed è allora che cominciai a vedere quel silenzio, e a sentire quella pace.

Un uomo mi si avvicinò. Mi si sedé vicino e mi chiese: cos’è che vuoi?

Non capì. Lui ripeté.

Cos’è che vuoi?

Dopo un momento di silenzio risposi… “Pace… felicità”.

Allora abbi pace e sii felice”.


E tu? Cos’è che vuoi? Te lo sei mai chiesto?

Col tempo ho capito che non ce lo chiediamo abbastanza e perciò ci ritroviamo persi. Ma dovremmo cominciare a farlo… a chiedercelo…

Tu, cos’è che vuoi?

Rispondere a questa domanda potrebbe davvero cambiare il corso delle nostre vite. Un piccolo momento di riflessione per rispondergli è quanto basta… un po’ come per le navi. Che con un piccolo movimento per volta cambiano completamente rotta. Ecco, fa quel primo movimento. Risponditi.

Tu, cos’è che vuoi?

Empty conversations, conversazioni vuote. – Di recente ho sentito questa espressione più di una volta.

Cercavo un posto tranquillo dove andare a scrivere in pace; magari con un buon caffè, magari con l’aria condizionata non troppo forte, magari senza troppe persone. Pensavo al classico Starbucks ma lì la musica è altissima e si gela. In biblioteca? Non volevo quel tipo di silenzio. Al parco? Troppo caldo! E poi troppe zanzare! Scegliendo e scartando le varie opzioni nella testa, gironzolando sullo scooter, a un tratto sapevo dove andare. C’era una libreria qualche quartiere più lontano dal mio con un bar carino al suo interno e tranquillo, ricordavo; con un tavolo che dava le spalle alla finestra che equilibrava perfettamente la temperatura di dentro dell’aria condizionata e la temperatura di fuori del sole. Perfetto! Era tanto che non ci andavo e quella scelta poteva andare. Mezz’oretta dopo arrivo ma, chiuso! Aprono alle 10.30! Erano le 8.13. Porca miseria! Dove potevo andare? Il mood era anche andato ormai e non ne avevo idea. Così decido di sedermi lì, su di una panchina all’interno del quartiere. Magari aspettando, magari riposando soltanto, (dato che faceva caldo ed ero già tutto sudato), magari perdendo tempo. Il mood, come dicevo, era andato per cui, che importanza aveva. Mi sono messo a guardare attorno. Le case. Le strade. Quelle poche persone che passavano. Poi ho sentito qualcuno cantare (in cinese ovviamente). Poi ho sentito qualcuno cantare (in italiano questa volta! Non potevo crederci, in italiano?! Qui?! A quest’ora di domenica?!) Cantava una canzone dei Modá. La ricordavo anche. Poi ho sentito qualcuno cantare in spagnolo! E poi in francese! E poi di nuovo in cinese. Non potevo crederci. Allora decido di spostarmi per vedere da dove proveniva quel canto e attorno a un grande albero vedo un ragazzo apparentemente non troppo… come dire… “normale” … (ma chi lo è in fondo?… intanto questo sapeva quattro lingue! O quattro canzoni in quattro lingue differenti, quantomeno). Così mi siedo lì in modo che possa vederlo e sperando che lui possa vedere me. Ed ecco che proprio mentre riprende a cantare in italiano, si gira e guarda nella mia direzione. Ci guardiamo negli occhi per un secondo soltanto. Si ferma col girare attorno all’albero. Si ferma col cantare, anche. Poi mi fa un cenno. Rispondo con un altrettanto cenno e un sorriso e poi: “sai cantare?” mi chiede (in italiano!). “A modo mio, sì”, gli rispondo. Allora mi fa segno di unirmi a lui e così cominciamo entrambi a camminare (quasi come in una danza seguendo un ritmo ben preciso) intorno all’albero e a cantare: Ciao/ semplicemente ciao/ difficile trovar parole molto serie/ tenterò di disegnare… come un pittore!

Meglio questo che conversazioni vuote” mi dice poi, continuando a cantare e a danzare intorno a quell’albero. Meglio questo che conversazioni vuote.

Mettiamo sempre interamente noi stessi nelle conversazioni che facciamo o parliamo tanto per parlare? E mettiamo sempre interamente noi stessi quando ci parlano, nell’ascoltare, o solo aspettiamo? Chuck Palahniuk in un suo libro scriveva: “When people think you’re dying, they really, really listen to you, instead of just waiting for their turn to speak”, è quando le persone pensano che stai morendo che davvero, davvero ti ascoltano, invece che stare ad aspettare il loro turno per parlare. Noi aspettiamo? O ascoltiamo? Perché non so se lo sai ma in fondo se siamo ancora vivi stiamo anche già morendo, non trovi? Come facciamo a sapere che quel “ciao” detto di fretta, quel “si mamma ok. Non rompere!”, quel “sì, dopo ne parliamo, papà. Non ora!”, non siano le ultime cose che diremo a quelle persone? Se siamo ancora vivi stiamo anche già morendo e così anche loro, sai? Conversazioni vuote. Evitiamole. Meglio danzare intorno a un albero. Meglio cantare. Meglio ascoltare. Meglio stare in silenzio, ma insieme.

Conversazioni vive.

Mia moglie non troppo tempo fa è stata in un viaggio in Tibet, che fortunatamente (per me) non è durato 7 anni come nel film ma un po’ meno! Tornando mi ha fatto vedere le foto di questi luoghi meravigliosi; di montagne innevate all’orizzonte dipinte d’oro dal sole, di aquile maestose libere, sotto cieli dipinti con colori di azzurro, di blu e di infinito che non saprei neanche descrivere, di palazzi e di monasteri immersi in quadri che l’ha natura stessa ha creato, di persone su di un altro pianeta. Di povertà esteriore, di ricchezza interiore. Ma di miseria, anche. E di dolore. Perché quello non lo si nasconde agli occhi. Perché un’entrata di 200 euro all’anno soltanto, fa male anche se l’aria è pulita, al cuore di un pastore che vede i propri figli e le proprie figlie avere visioni diverse dalle sue. Perché anche se non lontano dal suo albero, può capitare che una mela cadendo guarda in altre direzioni. Che c’è di male? Ma tra queste foto poi, e tra i suoi racconti, ecco che ho scovato qualcosa, qualcosa di più. Qualcosa di bello e di colorato, qualcosa di fine. Qualcosa di artificiale ma di così tanto vicino all’origine che quasi si confondeva col naturale del luogo, col naturale del mondo.

I Mandala.

Queste opere composte con milioni di granelli di sabbia colorata lavorate per ore, giorni, settimane a volte, dai monaci tibetani e che una volta concluse vengono distrutte. Rimischiate per farle tornare una sola cosa e poi rilasciate in un corso d’acqua. A simboleggiare che nulla di materiale è per sempre. E così come in fondo ciò che abbiamo nella vita son soltanto cose, così quelle opere in fondo son soltanto sabbia. Per cui riguardo la foto di una delle figlie di quel pastore e mi chiedo se lei questo lo sa… mentre le auguro ugualmente tutto ciò che desidera.

Regalo da parte della figlia del pastore a Coral

Di tutte le cose che vogliamo o di tutte le cose che pensiamo di avere niente è per sempre. Ma ce lo dimentichiamo in fretta, penso, mentre mi viene in mente una canzone di Danilo Sacco che fa: “ho visto padri e figli parlare di onestà/ fratelli vendersi persino l’anima/ ma niente è per sempre/ nemmeno se qualcuno può dire che in fondo è facile sognare in eterno/ in un istante poi niente è per sempre, nemmeno se lo vuoi/

Non ricordo come continua ma continua a suonarmi in testa mentre accarezzo Coral e la bacio. Perché so che nulla è per sempre ma la vita sì, e queste carezze lente e questo amore li porterò con me.

Dove sono quelle piccole foto ingiallite nei portafogli, 
ora che abbiamo i cellulari?
Cos’è che mio figlio troverà in vecchie tasche... in vecchi cassetti. 
Su cosa volerà nel passato pensando a suo padre? 
Cosa lo riporterà indietro da me in questo tempo in cui sono adesso?
In cui intrappoliamo così tanto in ogni scatto troppo spesso, che tutto è perso. 
Con così tanti colori... ed ora abbiamo solo il bianco. 

Ma saranno forse queste parole che gli arriveranno 
e lo porteranno da me. 
In questo tempo in cui sono adesso e in cui ti accarezzo, figlio mio. 

Vola con me.

Mi ha sempre fatto sorridere il mondo dell’arte, quello della scrittura in particolare. E non tanto per la scrittura in sé; quella è magia, come fai a toccarla? Ma per quello che c’è dentro o ci gira attorno, per quelli che ci sono dentro o ci girano attorno. Ho sentito di scrittori troppo bravi per condividere le loro opere, ho sentito di scrittori troppo avanti per soffermarsi sui lettori, ho sentito di scrittori incompresi non letti, ho sentito di scrittori incompresi troppo letti e troppo comprati. Ho sentito di scrittori troppo più in alto per la banale pubblicità sui social, ho sentito di scrittori troppo in basso per arrivare dove la società non vuole che arrivino. Ho sentito di scrittori che leggono, ho sentito di scrittori che non leggono. Ho sentito di scrittori che dicono fesserie per fare numero, ho sentito di scrittori che dicono la verità non fregandosene delle conseguenze. Ho sentito di showman scrittori, ho sentito di scrittori businessman. Ho sentito di scrittori stupidi. Ho sentito di scrittori geni. Ho sentito di scrittori e non ho sentito di altri. Ed ho sentito di quelli che ci girano attorno poi, alla scrittura. Ho sentito di quelli che supportano, ho sentito di quelli che vogliono porre i propri limiti su chi limiti non ne ha. Ho sentito di quelli che fingono, ho sentito di quelli che dicono la verità. Ho sentito di quelli che dicevano: “ma che sei ricchione che scrivi poesie?” e ho sentito di quelli che dicevano: “come hai fatto?”. Ho sentito di quelli che hanno buttato i miei testi nella spazzatura e ho sentito di quelli che i miei testi li hanno appesi al muro. Ho sentito chi mi ha detto che le cose che scrivo sono infantili ed ho sentito chi mi ha detto che le cose che scrivo gli hanno cambiato la vita. Ho sentito chi mi ha letto e deriso, ho sentito chi mi ha letto e pianto. Ho sentito chi mi ha detto che i racconti dell’Asia alle persone dell’Ovest non possono fregar di meno, ho sentito chi mi ha detto che l’Ovest ci muore per sapere cosa succede nell’Est. Ho sentito chi mi ha letto ed è stato zitto, ho sentito chi non mi ha letto ed ha parlato. Ho sentito chi mi ha letto e mi ha guardato, ho sentito chi non mi ha letto e mi ha pregiudicato. Ho sentito chi ha sentito, ho sentito chi non lo ha fatto. Ho abbracciato chi lo ha fatto, ho sorriso a chi invece no.

Per questo secondo articolo non sono in un bar come nel precedente ma in una delle strade principali che c’è in uno dei centri di Pechino. Sanlitun si chiama la zona. Puoi cercarla online; è affascinante. Qui ci sono discoteche, ristoranti di un certo tipo, grattacieli, centri commerciali di 30 piani, negozi di lusso. Ti sorprenderesti nel vedere quante Rolls Royce e Ferrari ci sono che passano di qui. E questa non è neanche una delle aree più ricche.

Non mi piace venire in queste zone ma mi ci ritrovo a venire spesso per vari motivi e ogni volta penso: “I don’t belong here”, che in italiano più o meno vuol dire: Non appartengo a qui, non appartengo a questo posto. Già. Eppure ci sono. Eppure le lascio aver peso e le lascio prender spazio a questa mia contraddizione che mi vede seduto a terra, sul marciapiede di questa strada a bere un energy drink, con di fianco una busta di Louis Vuitton ed una di Balenciaga. “I don’t belong here” eppure “here” vengo a prendere i regali per mia moglie. Ma a chi prendo in giro? Mi piace venire qui. Mi piace venire qui con la mia faccia e la mia pelle in mezzo a questi altri che la mia faccia e la mia pelle non ce l’hanno. Mi piace venire qui a farmi guardare male entrando e a farmi ringraziare uscendo. L’ho sempre fatto. Mi piace venire qui con la mia pelle e sapere di potere. Ma a chi prendo in giro? Odio venire qui e ricordare che prezzo ha avuto questo potere.

Ti racconto una storia.


Appena arrivato a Milano mi chiamavano “Il Gangster”; e potevo immaginare il perché. Venivo da giù (e non capisco come mai ma nella cultura di massa ignorante venire da giù vuol dire già qualcosa di negativo), vestivo largo con le catene al collo, col giubbino di pelle, coi pantaloni larghi e bassi e coi capelli lunghi fino al sedere raccolti in un codino o in una treccia… insomma, non un classico volto che vedi tra i banchi di ingegneria a Milano!

Il Gangster “.

E ad essere sinceri all’inizio mi piaceva quel soprannome. Ero sempre stato diverso ed ora anche lì lo ero, ed ora anche lì lo sapevano. Ma col tempo, crescendo immagino, quel “titolo” cominciava a stancarmi. Sentirselo dire in classe davanti ai professori, davanti a futuri amici, futuri colleghi di lavoro o magari futuri capi di lavoro non era il massimo. E ancor di più non era il massimo sentirselo dire alle spalle. L’ambiente universitario è diverso da quello della strada e se cominci ad essere riconosciuto per le cose sbagliate, ne paghi le conseguenze quando poi l’università finisce. Non volevo quello. Non era quello che stavo cercando di costruire. Così dopo poco, grazie anche all’aiuto di una persona, ho deciso di cambiare. Ho tagliato i capelli, ho tolto le catene e ho cominciato a vestire “più stretto” e “più elegante”. Polo Dior, camicie Burberry, magliette Versace, jeans Ck, cinture Hermes, scarpe Paciotti, sneakers Zanotti, anfibi Gucci, mutande Armani. Non c’era una boutique di Montenapoleone che non avevo visitato. E devo essere sincero? Cominciavo a prenderci gusto! Ero diventato un’altra persona, MI SENTIVO un’altra persona. Migliore?! Non so! Ma sicuramente diversa.

Eventualmente i corsi ricominciarono. Si ritornava in aula.

Era stato uno shock per le persone che mi conoscevano e mi avevano visto crescere vedermi così diverso da un giorno all’altro. Ed erano felici di quel cambiamento. Sapevano cosa voleva dire e sapevano che mi avrebbe portato via da determinate strade… di pensiero. Ed era strano persino per me, quando passavo davanti agli specchi dei negozi o davanti ai finestrini delle macchine, vedere quell’immagine riflessa. “E chi è quello?!” pensavo, mentre mi facevo una risata e mi dirigevo verso l’università. Ero curioso. Ero curioso di vedere le facce degli altri. Ero curioso di sentire com’è che suonava sentirsi chiamare Paolo l’ingegnere. O magari non so, qualcosa di simile. Beh, vuoi saperla una cosa? Non l’ho mica saputo poi com’è che suonava sentirsi chiamare in quel modo! Perché da “il gangster” ero passato a “il mafioso”. Giusto! Non lo avevo considerato, (silly me!). Il gangster veste largo e senza marche in vista. Il mafioso veste stretto e costoso. Che stolto ero stato a non averci pensato prima!

Finisco l’energy drink, butto la lattina nel cestino facendo canestro e mi rialzo. Prendo da terra le due buste e torno nella mia zona, tra chi la differenza della pelle non la vede.


Abbiamo la pelle che abbiamo e dobbiamo esserne fieri e orgogliosi. Perché la nostra pelle racconta la nostra storia e la storia di chi questa pelle ce l’ha data. Non dobbiamo cercare di cambiarla; non per gli altri, almeno. Anche perché se la vuoi con le strisce bianche e nere, la gente ti dirà sempre che in realtà ce l’hai con le strisce nere e bianche.

Non ne vale la pena.

Non ne vale la pelle.

Ero a casa quando ho pensato di iniziare a scrivere questo primo articolo sul blog. Ero nella camera da letto, seduto alla scrivania. Pensavo a un modo per cominciare. Pensavo, pensavo, ma nulla.

Così ho cominciato a fissare il muro, sperando chissà, che magari quella parete bianca si fosse trasformata in una lettera, o ancor meglio in una parola. Una sola! Una sola mi sarebbe bastata per cominciare e l’argomento sarebbe nato da quella. Ma nulla!

Allora ci ho rinunciato.

“Non è il momento” ho pensato e così ho lasciato perdere.

Mi sono preparato e sono uscito a prendere un caffè con un’amica. Nell’uscire di casa ho preso anche il computer però. Tanto per mostrare alla mia amica come stava venendo il sito.

Al bar ho preso la mia solita combo (caffè americano e muffin ai mirtilli) e lei anche ha preso il solito (mocha con crema e un pezzo di cheesecake). Ci siamo seduti. Prima a un tavolino vicino al muro ma, siccome l’aria condizionata mi arrivava dritta dietro al collo (e non avevo con me la sciarpa tattica estiva per i luoghi che sono a -10 gradi d’estate), ci siamo spostati sui divanetti. “Molto meglio ora!”

Ho scartato il muffin, come sempre faccio. L’ho tagliato delicatamente piano in quattro (soltanto perché ero con una ragazza altrimenti lo avrei mangiato da animale) e piano piano chiacchierando l’ho mangiato (anche qui, lo avrei divorato se ero da solo… ma sono un gentleman e allora piano piano).

Abbiamo chiacchierato e siamo stati insieme per circa due ore. Poi lei è andata ed io sono rimasto ancora un po’. La conversazione mi aveva fatto riflettere e così, ordinando uno spritz grande senza ghiaccio questa volta (Starbucks qui vende anche alcolici), ho preso il computer ed ho scritto: La Zona di Comfort.

Sì. Perché la cosa in particolare che mi ha fatto riflettere nella conversazione avuta poco fa, è che le persone davvero “stanno bene” nelle loro zone di comfort. Anche se questo vuol dire non essere felici o lamentarsi in continuazione, anche se questo vuol dire procrastinare e avere e continuare a vedere problemi su problemi arrivare.

Vogliamo cominciare a metterci in forma ma decidiamo di perdere qualche kilo prima di iniziare a correre.

Vogliamo cominciare a leggere ma aspettiamo di avere del tempo prima.

Vogliamo mangiare più sano ma da lunedì.

Vogliamo comportarci in maniera meno egoista, ma caspita! Guarda quanto stronze sono le persone!

Vogliamo che il capo non ci rompa più le palle e ci dia più credito, ma siamo i primi a lasciare l’ufficio a fine giornata.

Vogliamo essere felici ma aspettiamo che il momento giusto arrivi …

ma…

cos’altro?

Cos’altro deve prima accadere, prima di capire?


Mi viene in mente adesso che un uomo una volta ha detto: accettate la sofferenza.

Una frase del genere, ora, ci verrebbe da far pensare: “Madonna! E rilassati! Enjoy!”, vero? Beh… a chi viene da pensare così non è chiaro il significato di quella frase. E neanche a me lo era un tempo, se devo essere sincero.

“Accettate la sofferenza”

La sofferenza esiste, si sa. Ma io la vedo così… Ci possiamo rilassare e we can enjoy, sì, (ovviamente), ma possiamo realmente farlo solo dopo che abbiamo imparato ad accettare la sofferenza. E…

Cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire che non aspetto che perdo due kili prima di cominciare a correre! Comincio a correre… e poi perdo i due kili! (E se cominciare a correre credi sia sofferenza, aspetta l’inverno, quando al mattino fuori è buio e freddo e sta solo a te decidere se vincere o meno. E aspetta quando invece fuori è bello ma a te semplicemente non va!).

Cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire che se voglio leggere ma non ho tempo, lo trovo il tempo. Chi controlla chi?! Tu la tua giornata o la tua giornata te? Non possiamo decidere di cambiare neanche solo uno del colore dei nostri capelli ma, possiamo decidere COSA FARE ORA. Ricordatelo!

Cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire che se voglio mangiare più sano non aspetto lunedì ma butto via sto muffin pieno di chissà cosa dentro e mi mangio na banana e na mela!

Cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire che se vogliamo essere persone migliori lo siamo anche quando la gente ci tratta di merda. Perché è facile essere carini con chi è carino con noi. Con chi è gentile e sorridente, con chi ti sorride dolce e ti stringe la mano. È facile essere carini quando c’è il sole… ma prova ad esserlo quando fuori invece piove. Prova ad esserlo con chi ti risponde male, con chi ti salta nella fila e ti guarda come se avesse ragione. Con chi SBAGLIA e ti parla come se avesse ragione! Provaci. È allora che davvero saremo sulla strada per essere persone migliori… ed è facile secondo te? Certo che no! È sofferenza! Perché essere in pace e meditare sugli Himalaya ti cambia la vita, (credimi, l’ho fatto). Ma restare in pace e meditare nel caos della città è tutta un’altra cosa… tutta un’altra storia.

Cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire che se vuoi smettere di lamentarti del capo, delle rogne e del poco credito che ti dà ogni volta, cominci a non prepararti più alle 17.28 a fine giornata per andare via come fanno nell’ufficio di Fantozzi, ma resti finché il capo resta, approfittando di quel tempo che siete gli unici due rimasti in ufficio per chiedergli se c’è qualcosa in più che puoi fare per dargli una mano. Ed è facile secondo te? Col caz**! È sofferenza! È sofferenza perché vuol dire che per chissà quanti giorni poi resterai fino alle 22 per finire i lavori extra che tu stesso hai chiesto ( e credimi perché anche questo l’ho fatto). Però sai cosa? Ora bevo liquori da 500 euro dopo pranzo e fumo sigari cubani da 100 euro con lui, e con lui soltanto, sia nel suo che nel mio ufficio.

Per cui: “accettate la sofferenza” vi dico, come diceva quel tale.

E cosa vuol dire accettare la sofferenza?

Vuol dire uscire fuori dalla zona di comfort. Vuol dire uscire fuori da quella situazione in cui ci troviamo, da quella situazione in cui in fondo lamentarsi é più facile che fare realmente qualcosa; accettando la sofferenza come conseguenza delle azioni. Perché ogni volta che si esce da quella zona la sofferenza arriva… credimi! Ma puoi stare tranquillo, perché arriverà così tante volte che eventualmente comincerai col considerarla diversamente. Arriverà così tante volte che eventualmente, (dopo così tante volte e ancora una in più), comincerai col considerarla addirittura piacevole. Piacevole perché sinonimo di crescita… perché sinonimo che stai salendo.

Per cui accetta la sofferenza. Accetta la sofferenza perché tanto i problemi non finiscono, cambiano. Accetta la sofferenza. Accetta la sofferenza e sarai felice.

Amen


PS

Non so se questo è il modo giusto di scrivere un articolo su di un blog o no. Non ne ho mai letto e mai seguito nemmeno uno prima. Ma è così che funzionerà qui sul blog di Paolo Cuciniello. L’autore parlerà in terza persona di sé così a caso, all’ormai terzo spritz grande senza ghiaccio, e scriverà quello che gli passerà per la testa in quel momento.

Per cui se decidete di restare: commentate, condividete, scrivetegli, fategli sapere se vi è piaciuto o meno l’articolo e … e niente 🙂

Alla prossima!

PC