Stavo per non andare a correre stamattina. Stavo formulando mille scuse nella testa per giustificarmelo… ieri sera ho mangiato troppo, sono ancora pieno. Ieri ho fatto tardi, meglio restare sul divano. È ok che non mi alleno un giorno, che fa! Mica devo perdere peso o che. Posso restare a cosce per aria oggi. Tanto devo camminare così tanto durante il giorno. E poi ho di fronte l’oceano, posso meditare qui. Che fa se non vado sulla spiaggia. Posso preparare un caffè e sto bene, no? Quello conta, no? Mah sì!

Mi stavo mettendo più comodo sul divano quando nel silenzio ho cominciato a sentire le onde affondare sulla spiaggia. Piano. Poi più forti. Poi gli uccelli. Ma che stai facendo? Mi sono chiesto…

Ho messo su il costume e sono andato a correre. Poi ho nuotato. Poi il sole si è alzato e mi ha salutato.

Dov’è che eri? Mi ha chiesto.

Perso. Gli ho risposto.

Ma adesso sei qui.

Ma adesso sono qui.

Un uccello dal colore blu acceso e verde smeraldo mi è passato di fianco. Planato su un’onda e rivolato via. Il cielo è diventato rosso.

Dov’è che ero? Davvero perso.

Ho continuato a nuotare. Ho continuato a correre. Ho pregato. Ho ascoltato il silenzio. Ho augurato buona giornata al sole e sono tornato a casa. Ed ora l’ho preparato quel caffè. Ed ora la sto scrivendo questa pagina di diario. Ed ora glieli darò cento baci a Coral per svegliarla. Ed ora le sorriderò.

Alla fine Coral ieri sera si è svegliata per davvero, a mezzanotte e mezza. L’ho fatta riaddormentare con la forza perché ero io a stare nel meglio del sonno in quel momento!! Poi però alle 4 sono venuto in spiaggia. Ed ora qui alla riva mi viene in mente una poesia che ho scritto a 12 anni, uscendo di casa al mattino presto per correre, che fa:

Risplende il sole.
L'aria fresca nei polmoni.
Il sorriso
in viso
per ogni cinguettio
di uccellino.

Svegliarsi
non è mai stato
così bello. 

Il freddo secco
che ti raffredda 
ma che sai 
che a breve
ti scalderà. 

Svegliarsi
non ha 
mai avuto
più senso di ora.

In questo esatto momento… ora… alle 20.16, ciò che mi viene da condividere è soltanto una cosa: “siate grati”. Siate grati per quello che ricevete perché non è detto che vi è dovuto, sapete? Ci pensavo ora. Mentre seduto alla vetrata di questa casa al mare, guardavo la luna farsi spazio tra le nuvole, le luci della città e il buio dell’oceano di notte.

Sale… sale… illumina più della città questa luna. Immagino tra qualche ora salirà così tanto che anche in Italia si vedrà. E poi nel resto del mondo…

Coral si è appoggiata sul divano. Ha detto che riposerà gli occhi 25 minuti e poi si alzerà e usciremo… non ne sono convinto. E va bene così! È stata una giornata lunga tra lo svegliarsi presto, il viaggio in aereo, i check-in e i check-up e i taxi. Mi sa che finirò di scrivere qui e andrò a sedermi vicino a lei.  Le prenderò le gambe e gliele stenderò sulle mie dall’altra estremità del divano. Così da poterle tenere al caldo i piedi con le mani. E dargli un bacio. Quei piedini… che sorreggono una guerriera così tanto forte che a volte me ne dimentico… come sto male in momenti come questi quando penso alle volte che le ho urlato contro. Come ho potuto?  Come facciamo a perdere la pazienza con le persone che amiamo… con le persone che ci amano! Come? È successo con le fidanzate un tempo. Con mia madre. Con Coral, adesso. Perché? Nulla mi è dovuto e loro fanno così tanto per me… Spero una vita sia abbastanza per farle capire che le sono grato… ad ognuna di loro.

La luna si è alzata ancora di più. Ora la sua luce è l’unica luce che domina il cielo.

Siamo a Xiamen. Qui il tramonto cade sulla città, il che vuol dire che domattina l’alba si alzerà dal mare. Non vedo l’ora di poter correrle incontro… ed esser grato anche a lei… per ogni nuovo inizio che ci concede anche quando ce ne dimentichiamo. Anche quando non ci è dovuto.

Ore 5.33 appena ho aperto word per scrivere. Ore 5.34 quando ho iniziato a scrivere. Avevo qualcosa in mente ma è andata via. Sto ancora pensando a cosa ho letto nel capitolo di oggi del libro Atomic Habits di James Clear. Non so come tradurre esattamente in italiano cosa ho letto ma il libro parla di quelle piccole abitudini che potremmo iniziare per arrivare a quei grandi cambiamenti che vorremmo. Il capitolo di oggi parlava in particolare di come rendere “attraenti” queste abitudini così da scaturire un rilascio di dopamina nel cervello rendendo quell’atto più propenso all’essere fatto. E ci sono studi dietro a tutto questo. È stato studiato, provato, dimostrato che in effetti ci dà più piacere lo stimolo del sapere di una ricompensa piuttosto che la ricompensa in sé. Per cui rendendo attraente con questi stimoli di ricompensa delle azioni che non ci va di fare, (ma che sappiamo dobbiamo fare), stimolerebbe per bene quelle parti del cervello che ci porterebbero poi davvero a compierle quelle azioni. Nel capitolo c’erano vari esempi; uno tra questi neanche a farlo a posta, era di un ingegnere elettrico di Dublino che aveva un problema di dipendenza dalla TV. Infatti sapeva di essere dipendete da Netflix e sapeva che questo gli rubava del tempo la sera che poteva invece impiegare per fare dell’attività fisica. La soluzione? Ha escogitato un sistema in cui la TV avrebbe funzionato soltanto se dalla Cyclette andava ad una certa velocità. Ed era così forte il suo desiderio di vedere la TV che effettivamente ogni sera, da quella prima volta in poi, pedalava per tutto il tempo del suo show preferito. Sembra assurda come cosa ma ci sono tante altre cose nel capitolo che effettivamente ti fanno capire che così funziona. Prendi ad esempio un bambino in prossimità delle feste di natale. È certamente più propenso a fare il bravo e ad essere “comprato” più facilmente perché sa della ricompensa che riceverà. Ed effettivamente l’attesa del natale, con tutta quell’idea e quegli stimoli che si porta attorno, vale più del giorno di Natale in sé e della mattina in cui si scartano i regali. Vero se ci pensi. Da qui il concetto di rendere più attraenti quelle azioni che sappiamo dobbiamo fare e sappiamo ci fanno bene. Mica male, vero?

Mica male.

E cos’è che volevo dirti però? Non me lo ricordo più.

Niente…

Niente, vero. Solo condividere.

Oggi è domenica. Devo sistemare casa e fare la valigia perché domani partiamo per il mare. Non era programmato ma qualche giorno fa una persona cara è venuta a mancare nella mia famiglia e ho deciso che avevo bisogno del mare e del suo sole per ricaricarmi un po’. Un’epoca è finita e voglio abbracciare per bene la nuova. Dopotutto sono stato concepito nel mare e al mare ritorno quando voglio ricominciare a sentire.

Ed è un cliché lo so, tutti amano il mare. Ma Angela ha visto i miei occhi quando lo vedo, e io le credo.

Oggi la giornata è partita più a rilento. Sto scrivendo che sono le 9.30 di già. Non perché non mi sia svegliato presto, anzi, mi sono svegliato alle 4.47 che più o meno è in regola con gli altri giorni, ma il fatto è che sono tornato a dormire poi. Ho bevuto dell’acqua, ho meditato un po’ alla finestra, godendomi il silenzio della notte, e poi sono tornato a letto perché… perché la testa girava ancora dalla sera prima! Abbiamo avuto una cena con degli amici di Coral e siamo tornati alle 3.30 più o meno. E durante la cena non poteva non mancare del baiju, no? … e del vino… e qualche birretta… sai come funziona! Poi sai cosa mi viene in mente ora? Che siamo stati fino a un certo punto della serata in un posto che mi è piaciuto davvero tanto. “Kinda of abusivo”, penso. Erano delle roulotte tra dei palazzi che preparavano cibo di strada cinese (bbq con ogni tipo di carne, bbq di verdure, noodles, pane abbrustolito, ecc.), con tutti i tavolini da spiaggia messi fuori un po’ sparsi qui e lì, con le bottiglie di vetro di birra vuote che fungevano da repellente per le zanzare, con quegli “spironi” verdi “profumati al veleno” attaccati sopra che sanno di estate… e la gente felice. Mi ha ricordato le feste di paese in Italia, quella scena. Quelle feste in cui ci sono anche le giostre. Scena a cui non avrei fatto caso dieci o forse cinque anni fa; dopotutto è normale in certi posti d’Italia un’atmosfera del genere; ma lì, ieri, tutto mi è tornato in mente come un vento di ricordi caldo e piacevole. Che bello.

E magari tu che leggi starai pensando che dopotutto -non è niente-. Una festa in strada, cos’è mai? Ed è così infatti, -non è niente-. Ma tieniti stretti i momenti in cui sei, e vivili ogni istante, perché non sai quando in futuro ti ritorneranno sotto quella stessa forma in cui sono tornati a me, (vento caldo) … perché è in quel momento che ti ricorderai che non -erano niente-… anzi… -erano tutto-.

10.00 am

Mezz’ora ci ha messo questo ricordo a prendere forma, ci vuole il tempo che ci vuole. Eppure sembra passato solo un minuto in realtà. Davvero il tempo è relativo, ah? Davvero il tempo non esiste. Ero lì, ieri sera, ma allo stesso tempo ero alle feste in strada da piccolo. E chissà allora se alle feste in strada da piccolo non ero già qui ieri, anche, alle feste in strada da grande.

Alle volte penso di sì.

È il 20 Agosto 2021. Sono le 6.30 del mattino e sono seduto alla scrivania della camera da letto. Coral sta ancora dormendo; lei non ha motivo di alzarsi così presto. La sento e la osservo mentre si “stiracchia” da sotto le lenzuola e cambia posizione. Io invece, come ogni mattina, (e non sto dicendo quello che sto per dire per vantarmene, bensì per fare un ricapitolo mentale), mi sono già allenato, ho fatto la doccia, ho fatto colazione, ho letto un capitolo del libro che sto leggendo di recente, ho risposto ad una email di un cliente dall’America ed ora ho appena preparato il caffè. Quello in capsule… ho solo premuto un bottone.

In questo silenzio pensavo a un modo per rendere più attivo il blog. So che sono passate soltanto due settimane da quando l’ho aperto ma sai com’è. Vedi che molta gente ti scrive e che a volte in migliaia guardano le tue storie su Instagram, poi però ti rendi conto che soltanto un centinaio di persone al massimo al giorno leggono quello che scrivi sul blog. E ci resti… “male?!” … se quella è la parola. Perché poi è quello, quello che più conta, penso. Dopotutto ho iniziato questo gioco dei social appunto per la scrittura mica per mostrare la mia vita! Ma capisco che alla gente quello interessa invece; vedere la vita degli altri. O semplicemente colmare i vuoti della propria scorrendo le stories. E va bene. Così funziona e così è. Altrimenti i social non ci avrebbero invaso come hanno fatto, no? Per cui pensavo: come rendere più attivo il blog? Magari internet potrebbe venirmi in aiuto… per cui inizio a ricercare… ma mi perdo e mi passa la voglia non appena scrivo “come fare ecc. ecc. blog?”

WHAAT?? SERIOUSLY??

Non mi ero reso conto che così tante persone avevano un blog. Tutti esperti poi eh! Tutti che hanno la risposta alla domanda e tutti con grafiche così tanto più belle delle mie. Inizio a leggere un articolo, poi un altro, poi un altro ancora. Le grafiche di ogni articolo ed ogni sito sono sempre più belle. Ognuno ha così tanto da dire a riguardo. Ognuno che ha mille motivi e mille soluzioni e mille modi. E allora sai cosa? Chiudo tutto! Se cominci a leggere e a ricercare queste cose finisce un po’ come quando hai mal di testa da sette giorni e ricerchi il motivo online… stai sicuro che hai qualche malattia rarissima e stai per morire in otto minuti! Non è cosa per me. Lasciamo internet alle ricerche di lavoro e ai porno. Le risposte alle domande devo trovarle a modo mio, come ho sempre fatto. Sperimentando e sbagliando. Se dev’essere sarà.

Per cui ho pensato: cos’è che mi piace fare?

Scrivere.

E qual è il motivo per cui ho aperto un blog e i social?

Scrivere!

E allora qual è la risposta? Cos’è che devo fare?

SCRIVERE!

Esatto! Scrivere.

Quello è il punto di tutto questo mettersi in gioco in acque sconosciute dopotutto. E allora? Scrivo!

Ma cosa scrivo? Ho già nuove idee per nuovi libri ma ho bisogno che la situazione pandemia migliori prima di muovermi in quella direzione, quindi? Cosa scrivo? Un articolo a settimana ce l’ho. Una newsletter piano piano ce l’avrò. Cos’è che potrebbe mancare? Un diario.

Un diario?

Sì. Un diario. Non è male come idea, non trovi?

Per scriverci cosa?

Non lo so. Quello che mi passa per la testa. Ma senza impegno. Così, soltanto al mattino appena sveglio prima di andare al lavoro.

mmm. E poi com’è che lo pubblichi? Con che frequenza? Giornalmente?

Giornalmente è pesante, vero?

Forse.

E allora settimanalmente. Posso scrivere ogni giorno, raccogliere le pagine e poi una volta a settimana pubblicare tutte le cose scritte la settimana precedente. Così ogni volta.

mmm. Ma sai che non è una cattiva idea?

Vero?

Sì! Anzi. Mi piace proprio come idea!

E allora lo faccio!

Si!

È così che, dopo aver parlato da solo bisbigliando al chiarore del cielo del mattino, ho deciso di scrivere e di dedicare una pagina del blog a un Diario Aperto. In modo da avere così un qualcosa in più con cui intrattenervi. In modo da aprirvi una finestra in più su quel che è la mia vita. In modo da migliorare la mia scrittura facendo così pratica ogni giorno scrivendo.

Comincia a piacere anche a me questa idea, sai? E a te?

Mia moglie non troppo tempo fa è stata in un viaggio in Tibet, che fortunatamente (per me) non è durato 7 anni come nel film ma un po’ meno! Tornando mi ha fatto vedere le foto di questi luoghi meravigliosi; di montagne innevate all’orizzonte dipinte d’oro dal sole, di aquile maestose libere, sotto cieli dipinti con colori di azzurro, di blu e di infinito che non saprei neanche descrivere, di palazzi e di monasteri immersi in quadri che l’ha natura stessa ha creato, di persone su di un altro pianeta. Di povertà esteriore, di ricchezza interiore. Ma di miseria, anche. E di dolore. Perché quello non lo si nasconde agli occhi. Perché un’entrata di 200 euro all’anno soltanto, fa male anche se l’aria è pulita, al cuore di un pastore che vede i propri figli e le proprie figlie avere visioni diverse dalle sue. Perché anche se non lontano dal suo albero, può capitare che una mela cadendo guarda in altre direzioni. Che c’è di male? Ma tra queste foto poi, e tra i suoi racconti, ecco che ho scovato qualcosa, qualcosa di più. Qualcosa di bello e di colorato, qualcosa di fine. Qualcosa di artificiale ma di così tanto vicino all’origine che quasi si confondeva col naturale del luogo, col naturale del mondo.

I Mandala.

Queste opere composte con milioni di granelli di sabbia colorata lavorate per ore, giorni, settimane a volte, dai monaci tibetani e che una volta concluse vengono distrutte. Rimischiate per farle tornare una sola cosa e poi rilasciate in un corso d’acqua. A simboleggiare che nulla di materiale è per sempre. E così come in fondo ciò che abbiamo nella vita son soltanto cose, così quelle opere in fondo son soltanto sabbia. Per cui riguardo la foto di una delle figlie di quel pastore e mi chiedo se lei questo lo sa… mentre le auguro ugualmente tutto ciò che desidera.

Regalo da parte della figlia del pastore a Coral

Di tutte le cose che vogliamo o di tutte le cose che pensiamo di avere niente è per sempre. Ma ce lo dimentichiamo in fretta, penso, mentre mi viene in mente una canzone di Danilo Sacco che fa: “ho visto padri e figli parlare di onestà/ fratelli vendersi persino l’anima/ ma niente è per sempre/ nemmeno se qualcuno può dire che in fondo è facile sognare in eterno/ in un istante poi niente è per sempre, nemmeno se lo vuoi/

Non ricordo come continua ma continua a suonarmi in testa mentre accarezzo Coral e la bacio. Perché so che nulla è per sempre ma la vita sì, e queste carezze lente e questo amore li porterò con me.

Dove sono quelle piccole foto ingiallite nei portafogli, 
ora che abbiamo i cellulari?
Cos’è che mio figlio troverà in vecchie tasche... in vecchi cassetti. 
Su cosa volerà nel passato pensando a suo padre? 
Cosa lo riporterà indietro da me in questo tempo in cui sono adesso?
In cui intrappoliamo così tanto in ogni scatto troppo spesso, che tutto è perso. 
Con così tanti colori... ed ora abbiamo solo il bianco. 

Ma saranno forse queste parole che gli arriveranno 
e lo porteranno da me. 
In questo tempo in cui sono adesso e in cui ti accarezzo, figlio mio. 

Vola con me.

Mi ha sempre fatto sorridere il mondo dell’arte, quello della scrittura in particolare. E non tanto per la scrittura in sé; quella è magia, come fai a toccarla? Ma per quello che c’è dentro o ci gira attorno, per quelli che ci sono dentro o ci girano attorno. Ho sentito di scrittori troppo bravi per condividere le loro opere, ho sentito di scrittori troppo avanti per soffermarsi sui lettori, ho sentito di scrittori incompresi non letti, ho sentito di scrittori incompresi troppo letti e troppo comprati. Ho sentito di scrittori troppo più in alto per la banale pubblicità sui social, ho sentito di scrittori troppo in basso per arrivare dove la società non vuole che arrivino. Ho sentito di scrittori che leggono, ho sentito di scrittori che non leggono. Ho sentito di scrittori che dicono fesserie per fare numero, ho sentito di scrittori che dicono la verità non fregandosene delle conseguenze. Ho sentito di showman scrittori, ho sentito di scrittori businessman. Ho sentito di scrittori stupidi. Ho sentito di scrittori geni. Ho sentito di scrittori e non ho sentito di altri. Ed ho sentito di quelli che ci girano attorno poi, alla scrittura. Ho sentito di quelli che supportano, ho sentito di quelli che vogliono porre i propri limiti su chi limiti non ne ha. Ho sentito di quelli che fingono, ho sentito di quelli che dicono la verità. Ho sentito di quelli che dicevano: “ma che sei ricchione che scrivi poesie?” e ho sentito di quelli che dicevano: “come hai fatto?”. Ho sentito di quelli che hanno buttato i miei testi nella spazzatura e ho sentito di quelli che i miei testi li hanno appesi al muro. Ho sentito chi mi ha detto che le cose che scrivo sono infantili ed ho sentito chi mi ha detto che le cose che scrivo gli hanno cambiato la vita. Ho sentito chi mi ha letto e deriso, ho sentito chi mi ha letto e pianto. Ho sentito chi mi ha detto che i racconti dell’Asia alle persone dell’Ovest non possono fregar di meno, ho sentito chi mi ha detto che l’Ovest ci muore per sapere cosa succede nell’Est. Ho sentito chi mi ha letto ed è stato zitto, ho sentito chi non mi ha letto ed ha parlato. Ho sentito chi mi ha letto e mi ha guardato, ho sentito chi non mi ha letto e mi ha pregiudicato. Ho sentito chi ha sentito, ho sentito chi non lo ha fatto. Ho abbracciato chi lo ha fatto, ho sorriso a chi invece no.

Per questo secondo articolo non sono in un bar come nel precedente ma in una delle strade principali che c’è in uno dei centri di Pechino. Sanlitun si chiama la zona. Puoi cercarla online; è affascinante. Qui ci sono discoteche, ristoranti di un certo tipo, grattacieli, centri commerciali di 30 piani, negozi di lusso. Ti sorprenderesti nel vedere quante Rolls Royce e Ferrari ci sono che passano di qui. E questa non è neanche una delle aree più ricche.

Non mi piace venire in queste zone ma mi ci ritrovo a venire spesso per vari motivi e ogni volta penso: “I don’t belong here”, che in italiano più o meno vuol dire: Non appartengo a qui, non appartengo a questo posto. Già. Eppure ci sono. Eppure le lascio aver peso e le lascio prender spazio a questa mia contraddizione che mi vede seduto a terra, sul marciapiede di questa strada a bere un energy drink, con di fianco una busta di Louis Vuitton ed una di Balenciaga. “I don’t belong here” eppure “here” vengo a prendere i regali per mia moglie. Ma a chi prendo in giro? Mi piace venire qui. Mi piace venire qui con la mia faccia e la mia pelle in mezzo a questi altri che la mia faccia e la mia pelle non ce l’hanno. Mi piace venire qui a farmi guardare male entrando e a farmi ringraziare uscendo. L’ho sempre fatto. Mi piace venire qui con la mia pelle e sapere di potere. Ma a chi prendo in giro? Odio venire qui e ricordare che prezzo ha avuto questo potere.

Ti racconto una storia.


Appena arrivato a Milano mi chiamavano “Il Gangster”; e potevo immaginare il perché. Venivo da giù (e non capisco come mai ma nella cultura di massa ignorante venire da giù vuol dire già qualcosa di negativo), vestivo largo con le catene al collo, col giubbino di pelle, coi pantaloni larghi e bassi e coi capelli lunghi fino al sedere raccolti in un codino o in una treccia… insomma, non un classico volto che vedi tra i banchi di ingegneria a Milano!

Il Gangster “.

E ad essere sinceri all’inizio mi piaceva quel soprannome. Ero sempre stato diverso ed ora anche lì lo ero, ed ora anche lì lo sapevano. Ma col tempo, crescendo immagino, quel “titolo” cominciava a stancarmi. Sentirselo dire in classe davanti ai professori, davanti a futuri amici, futuri colleghi di lavoro o magari futuri capi di lavoro non era il massimo. E ancor di più non era il massimo sentirselo dire alle spalle. L’ambiente universitario è diverso da quello della strada e se cominci ad essere riconosciuto per le cose sbagliate, ne paghi le conseguenze quando poi l’università finisce. Non volevo quello. Non era quello che stavo cercando di costruire. Così dopo poco, grazie anche all’aiuto di una persona, ho deciso di cambiare. Ho tagliato i capelli, ho tolto le catene e ho cominciato a vestire “più stretto” e “più elegante”. Polo Dior, camicie Burberry, magliette Versace, jeans Ck, cinture Hermes, scarpe Paciotti, sneakers Zanotti, anfibi Gucci, mutande Armani. Non c’era una boutique di Montenapoleone che non avevo visitato. E devo essere sincero? Cominciavo a prenderci gusto! Ero diventato un’altra persona, MI SENTIVO un’altra persona. Migliore?! Non so! Ma sicuramente diversa.

Eventualmente i corsi ricominciarono. Si ritornava in aula.

Era stato uno shock per le persone che mi conoscevano e mi avevano visto crescere vedermi così diverso da un giorno all’altro. Ed erano felici di quel cambiamento. Sapevano cosa voleva dire e sapevano che mi avrebbe portato via da determinate strade… di pensiero. Ed era strano persino per me, quando passavo davanti agli specchi dei negozi o davanti ai finestrini delle macchine, vedere quell’immagine riflessa. “E chi è quello?!” pensavo, mentre mi facevo una risata e mi dirigevo verso l’università. Ero curioso. Ero curioso di vedere le facce degli altri. Ero curioso di sentire com’è che suonava sentirsi chiamare Paolo l’ingegnere. O magari non so, qualcosa di simile. Beh, vuoi saperla una cosa? Non l’ho mica saputo poi com’è che suonava sentirsi chiamare in quel modo! Perché da “il gangster” ero passato a “il mafioso”. Giusto! Non lo avevo considerato, (silly me!). Il gangster veste largo e senza marche in vista. Il mafioso veste stretto e costoso. Che stolto ero stato a non averci pensato prima!

Finisco l’energy drink, butto la lattina nel cestino facendo canestro e mi rialzo. Prendo da terra le due buste e torno nella mia zona, tra chi la differenza della pelle non la vede.


Abbiamo la pelle che abbiamo e dobbiamo esserne fieri e orgogliosi. Perché la nostra pelle racconta la nostra storia e la storia di chi questa pelle ce l’ha data. Non dobbiamo cercare di cambiarla; non per gli altri, almeno. Anche perché se la vuoi con le strisce bianche e nere, la gente ti dirà sempre che in realtà ce l’hai con le strisce nere e bianche.

Non ne vale la pena.

Non ne vale la pelle.