È da un po’ che non ti scrivo, caro diario. È da un po’ che non mi fermo a sedere per scavarmi dentro e vedere cosa penso. È da un po’ che vado a dormire nervoso e che mi sveglio incazzato. È da un po’ che se capita che sono in cucina, Coral va in salone. È da un po’ che se capita che sono in salone, Coral va in camera. Se sono in camera, Coral va sul divano. Sembrava stessimo bene ma era solamente perché eravamo in differenti posti della stessa casa. “Su diverse onde”, come le ho detto ieri. Col quale intendevo dire su diverse frequenze d’onde ma da incazzato neanche a parlare riesco… che tanto ho sempre e comunque torto io

“Siamo in momenti particolari della nostra vita” mi viene da dire. Ma poi, ancora, quand’è che invece non lo siamo? Quand’è che invece siamo in un “momento normale” della nostra vita? Ogni momento è unico e nuovo per quel che ne so, come fa mai ad essere normale? Come col tempo, che velocemente o meno passa, anche questi momenti sono dettati dalla percezione che abbiamo di essi, penso.

Normali. Particolari. 

L’acqua del mare per cui una donna da piccola ha avuto un trauma può darle l’ansia e farle rivivere un incubo, oggi. La stessa acqua del mare che a un uomo fa sognare solo a guardarla. 

Percezioni. 

Per un uomo è normale sputare da un motorino in corsa. Per me è disgustoso. Per un uomo è normale uccidere, tradire e fare la guerra per il dio danaro. Per me non ha senso. Per un uomo è normale commettere adulterio e picchiare la propria moglie se lo commette. Per me è da ipocriti. Per un uomo è normale accelerare davanti a una scuola nell’orario d’uscita e fare slalom tra i bambini per evitare prima il traffico. Per me è da pazzi. Per un uomo è triste il Covid, il terremoto, la peste, la malattia. Per me è cosa buona e giusta. Per un uomo è scomoda la pioggia. Per me… falla cadere. Falla cadere e inondaci se non può lavarci perché siamo noi gli impostori non la terra.

Siamo esseri umani e in quanto tali commettiamo errori. Siamo esseri umani e in quanto tali ci è concesso, di tanto in tanto, di dare sfogo all’ego… liberandocene.

Che poi non so neanche se è all’ego che mi sto riferendo. Non so neanche se è lui quel mostro a cui ci capita di dare il controllo quando non siamo noi al comando. Quel mostro che mostra a tutti i costi agli altri quanto migliori siamo, quante più cose abbiamo, quante più cose sappiamo. 

E mi è capitato proprio ieri, su Instagram. E chiaramente non ero lucido altrimenti non ci starei ancora pensando stamattina. 

Ho postato una foto che mostra un determinato tipo di lifestyle.

Perché? 

Perché l’ego in quel momento ne aveva bisogno. 

Perché forse l’ego così voleva. 

Perché forse, in fondo, IO così volevo. 

Ma a che pro l’ho fatto? Mi sono chiesto stamattina. 

Per mostrare a quei bambini ricchi che mi guardavano in un determinato modo che adesso anch’io posso? Per mostrarlo a quegli adulti che, ora, mi guardano allo stesso modo? 

A che pro l’ho fatto? 

Se poi la mia gente ancora fa fatica ad arrivare alla fine del mese.

A che pro l’ho fatto? 

Se poi chi ho intorno ancora raccoglie il cartone dalla spazzatura per rivenderlo.

A che pro l’ho fatto? 

Se poi i miei amici sono senza genitori e ancora senza lavoro. 

A che pro l’ho fatto? 

Se poi i miei cugini e i miei fratelli ancora si perdono.

A che pro l’ho fatto? 

Se poi mio padre ancora si alza al mattino alle cinque per andare al lavoro.

A che pro l’ho fatto? 

Se poi mia madre ancora piange per questa vita. 

A che pro l’ho fatto? 

Se ancora non sono in grado di pagare anche le loro bollette. Se ancora non posso comprargli una casa a testa. Se ancora non posso risanargli i debiti. Se ancora non posso dargli il lavoro che meritano. Se ancora non sono capace di salvare neanche uno di loro. Se ancora neanche posso abbracciarli ed essergli vicino… 

A che pro l’ho fatto? 

Solo Ego. 

… ma magari, alle volte, questo è quello che serve per liberarsene. Magari, alle volte.

Immerso tra i pensieri, stamattina, la vocina sull’applicazione che seguo per la meditazione ha detto: “non puoi fermare gli uccelli dal volare sopra la tua testa ma puoi fermarli dal costruire nidi nei tuoi capelli.”

Era esattamente ciò che avevo bisogno di sentire

Ero perso tra i pensieri e stavo permettendo agli uccelli di fare quello che non dovevano fareEro perso tra i pensieri del me-social (impegnato a fare una storia su IG per continuare a mantenere il flusso dell’algoritmo alto di questi giorni) e tra i pensieri dell’altro me (impegnato a dirmi quanto stupido dovevo sembrare visto da fuori). Stavo permettendo a entrambi di fare il nido tra i miei capelli…

Per fortuna quella frase mi ha risvegliato. Per fortuna quella frase mi ha riportato al me-vero. Perché una storia va bene, due secondi e finisce
Anche se fuori dall’orario di lavoro, non sembri stupido… a patto che non perdi la condizione del tempo, a patto che comunque poi cominci a fare quello che devi fare. Non pensarci troppo. 

Non pensarci troppo… quante volte lasciamo a questi pensieri di fare il nido? 
Capita anche a te?

A tal proposito mi torna in mente un ricordo. 

Una volta, tanti anni fa, un prete di passaggio nella parrocchia del mio quartiere mi disse: “tutti abbiamo freddo.” Riferendosi al fatto che non esiste chi non prova freddo quando fa freddo. Tutti siamo messi alla prova. C’è chi lo nasconde meglio, chi reagisce interiormente in maniera meno “evidente” … ma tutti abbiamo freddo. 

Tutti siamo presi da questi pensieri. 

Tutti siamo alle prese con questi nidi.

Mi è appena accaduta una cosa e finalmente ho capito cosa volevano dire quando dicevano che i social media aumentano il “complesso d’inferiorità”. Non mi era chiaro prima, non capivo. Questo perché non avevo mai speso del tempo a guardare i profili degli altri su Instagram, ad esempio. Mi limitavo (e ancora mi limito) a mettere le cose mie per far girare l’algoritmo del sistema a favore del mio nome solamente durante i periodi di promozione di un libro e poi nulla più. Invece, da un po’ di giorni a questa parte, (forse perché chiuso in casa o forse perché era destino che dovevo scrivere questa cosa oggi) mi sta capitando di vedere cosa postano gli altri. E lasciatelo dire, il sistema è fatto bene. Ma proprio bene! Perché più guardi cosa postano gli altri, più Instagram capisce a cosa sei interessato e più cose simili ti propone. È un cerchio

Ho guardato per un po’ il profilo di McGregor (il combattente UFC), poi ho guardato quello di Canelo (il boxer), quello di qualche pugile italiano, quello di qualche amico fighter in Thailandia e così via. 

Risultato? 

Da un po’ di giorni a questa parte la mia pagina Instagram è piena di gente che si allena e mena mazzate! Il che non mi dispiaceva all’inizio, anzi. Mi faceva comodo. Prendevo spunto per gli allenamenti in casa e per la giusta posizione di determinati esercizi. Vedevo che serie fare, come mettere il piede in un determinato tipo di calcio, come riscaldare una determinata parte del corpo nel caso in cui fa male, ecc. ecc. Ma stamattina mi sono reso conto che devo smettere. È solo una settimana che guardo queste cose e già mi sento una pippa
Praticamente tutto il mondo ha più muscoli di me, mena più forte di me, è più grosso di me, ha più soldi di me (perché allenarsi in certe palestre costa duecento euro a lezione e io se spendo duecento euro a lezione devo scappare da Coral che mi prende a calci nel culo) e sanno e fanno comunque più cose di me. Tanto che è venuto da chiedermi: ma io che mi alleno a fare? M’apro na birra e prendo due Ritz almeno me ‘mbriaco e so’ felice! O no?

Il complesso d’inferiorità. Eccolo qua. 

È fetente, eh! (Per citare il grande Totò). È fetente veramente. Ti prende senza che te ne accorgi. Piano, piano. Ti lascia credere che sia un normale pensiero di passaggio, che stia sorvolando lì per caso, e invece poi fa il nido. Fa il nido e s’insidia finché tu non ci credi davvero. Finché non ci credi davvero a che sei il più piccolo, il più debole, il più brutto, il più povero, il più goffo, il più stupido, il più fesso, il più ignorante, il più fallito, il più solo…

Ayo! (per citare i cinesi, questa volta).

Strappiamolo quel nido e buttiamolo giù che è meglio. Perché chi se ne importa se tutti sanno fare la ruota, la giravolta e quattro salti in padella? Noi sappiamo camminare? Sappiamo camminare di più rispetto a quando eravamo bambini? E allora!? A quello dobbiamo guardare. A se siamo migliori di noi stessi di ieri, a se siamo oggi in un posto più in alto/avanti rispetto a dove eravamo ieri. Non possiamo perdere tempo a compararci con gli altri. Gli altri non sono noi e noi non siamo gli altri. In più, siamo tutti in un capitolo differente della nostra vita. Lo siamo tra componenti della stessa famiglia sotto lo stesso tetto, immagina rispetto ad altri dall’altra parte del mondo. Come possiamo mai compararci? È una delle cose da non fare per continuare ad essere felici. Easy. 

Per questo ho chiuso Instagram, messo modalità aereo al telefono e con un bel ma vafaanc@#@ lanciatolo sul divano.

Sto molto meglio ora e sono felice, sai?

#pulendolacasa #rispolverandoiricordi sono stati gli hashtags che ho utilizzato sui social per il post di ieri. Eppure non credevo ci fosse ancora qualcosa da rispolverare. Credevo di averli rispolverati già abbastanza raccogliendo vecchi panni per rinchiuderli in uno scatolone da donare, e invece… un vecchio computer è saltato fuori. Il mio primo computer portatile. Lo avevo comprato a diciannove anni, il giorno in cui sono arrivato a Milano per l’università. Se non il giorno stesso, il giorno dopo. Lo ricordo ancora. Ero in un albergo vicino alla fermata della metropolitana Lima, sulla linea rossa. Nella stanza ad angolo dell’albergo che affaccia sul vialone principale. Nella stanza ad angolo dell’albergo in cui, chi lo avrebbe mai detto, la mia nuova vita iniziò. 

Ricordo ancora quella sera, seduto al tavolo alla finestra, a configurarlo. Stavo cominciando ingegneria e già mi sentivo ingegnere… per un portatile! Pensa te che cucciolo che ero. Ricordo la gioia nella voce di mia madre al telefono, la gioia nella voce di mio padre. Fino a qualche mese prima il figlio stava rischiando la galera (o peggio) e quella sera, invece, stava configurando l’antivirus e scaricando il materiale dei corsi. Te lo immagini? Ancora sento quella gioia nelle loro voci… La sento nello stesso modo in cui ieri ho sentito le voci di Angela e di un amico dirmi, per messaggio, “un’altra vita”. (Dopo che gli ho mandato delle vecchie fotografie trovate su quel computer che, davvero, provenivano da un’altra vita). Capelli californiani lunghi che stavo facendo allungare, 58 kg, scavato in volto. Piccolo eppure così tanto grandePiccolo eppure così tanto forte. Viene da chiedermi chissà chi vincerebbe adesso se ci scontrassimo. Adesso sono più grosso, peso quasi 80kg e di certo sono più lucido. Ma lui era più veloce e… non ricordo avesse paura di qualcosa. (Al contrario di ora). Non ricordo neanche se sentiva tutti questi dolori che sento mentre soltanto sto scrivendo; Il polso che fa male, il gomito addolorato, il ginocchio che scricchiola, il collo bloccato per la finestra lasciata aperta la scorsa notte, la spalla scomoda perché ci ho dormito sopra… chissà chi vincerebbe. 

Chissà.

Può sembrare che i piccoli cambiamenti non servano a nulla; che non ci possano far alcun male, che non ci possano far alcun bene. Che siano inutili perché minimi. Dopotutto, che differenza può mai fare se oggi me la prendo comoda e non faccio i compiti? Che differenza può mai fare se oggi mi alzo cinque minuti più tardi e poi corro per non fare tardi in ufficio? Che differenza può mai fare se bevo un bicchiere in più prima di tornare a casa? Che differenza può mai fare se vado o non vado in palestra dato quanto ho mangiato ieri sera a cena? Che differenza può mai fare se scrivo o non scrivo una pagina di diario oggi? Che differenza può mai fare se dico no a una sola sigaretta ora? Che differenza può mai fare se una nave non “sterza” di pochi millimetri quando deve sterzare? Che arriverà in America piuttosto che in Cina! Ecco che differenza può fare. Perché è ogni singola azione, ogni singolo pensiero, ogni singolo movimento, ogni singola decisione, che ci ha portato a dove siamo in questo momento. E sarà ogni singola azione, ogni singolo pensiero, ogni singolo movimento, ogni singola decisone, che ci porterà a dove saremo domani. Non inizia forse con un primo, singolo, piccolo passo una maratona di quaranta chilometri? Vale lo stesso per tutto il resto. È quella sigaretta a cui dici no adesso. Sono quelle dieci flessioni che fai in salone quando non hai tempo per la palestra. È quel bicchiere di meno che ordini al sabato sera. È quella cintura che metti alla guida. È quel ti amo che sussurri alla sera. È quel bacio che dai dopo aver fatto l’amore. È quel: “mamma e quanto sei bravo a scopare!” che dici a tuo marito. È quel “mamma e quanto sei bella!” che dici a tua moglie. È quella carezza. È quel regalino al compleanno. È quel sorriso alla cassiera. È quel dare la precedenza a una madre davanti a una scuola. È quell’idea che sviluppi sedendoti a tavolino. È quel sogno che realizzi alzando il culo dal divano. È quella bicicletta che impari a guidare cadendo. 
È quel magnifico ricordo un giorno avrai se solo avrai deciso di fare quella piccola e insignificante cosa ieri…

Perché credimi… nulla è insignificante.

Caro diario,

tanto abbiamo fatto che siamo riusciti a farci mettere in lockdown totale, finalmente! Nel palazzo, infatti, casa nostra è l’unica con il nastro davanti alla porta che ci impedisce di uscire. Chissà stamattina i vicini quando si svegliano!

Dovrei sentirmi rattristito? Non lo sono. Dovrei piangere? Mi viene da ridere. Mi viene da ridere perché “siamo rossi” in quanto siamo stati, di recente, in una zona rossa. Qualche sera fa, infatti, abbiamo deciso di farci un giro in una zona centrale del quartiere. Abbiamo mangiato cibo da strada, giocato con l’acqua e le fontane con dei bambini e i loro genitori, camminato e parlato. Era la prima passeggiata che Coral faceva da quando si è slogata la caviglia. Si sentiva meglio, la serata era anche fresca… e puff! Quella sera in quella zona sono scoppiati dei casi. Ovviamente! E mi viene da ridere perché di certo ieri avranno bloccato anche le famiglie di quei bambini e… e sai quante me ne stanno dicendo stamattina? Di certo penseranno che sono stato io il positivo. Sì, sì, giocate col ragazzo italiano. Fate pratica col vostro inglese, bambini. BAM! Maledetto italiano! Stranieri di m@#@! 

Funny. 

Comunque, alla fine, non sono io quello ad essere positivo. Ho fatto un test ogni giorno in questi giorni e mai nessuno è venuto a prendermi, per cui… Vediamo come si evolverà la cosa. Nel frattempo io continuo a fare il mio. Ero già in lockdown parziale da un mesetto e non saranno quattro mura di cemento a rinchiudere tutto quel che ho dentro. Questo l’ho imparato, ormai. Questo lo abbiamo imparato tutti. L’importante è avere una routine che funzioni e seguirla. Nel mio caso, la mia, la conoscete; Sveglia alle 4.30, yoga, allenamento, meditazione, doccia, colazione, diario, fare all’ammore. Caffè, lavoro d’ufficio, lavoro sui social, lavoro sui libri, pausa. Family time. Pranzo tardi, pennica, fare all’ammore. Tea verde caldo leggendo alla finestra guardando i bambini che giocano, ridono e gridano. Secondo allenamento, seconda doccia. Qualche messaggino. Qualche fotina se l’amica vuole. Attesa. Suspense. Qualche birra, un po’ di vino e poi quel che viene, viene. È bene anche lasciare spazio alle sorprese. L’importante è che poi alla sera si fa all’ammore! Che se si fa all’ammore non si hanno energie per litigare o stare al cellulare. Se si litiga, invece…

Ps 

Credo di aver dimenticato di nominare una cosa poco fa. Forse la più importante. Strano! È ciò che faccio proprio prima di scrivere sul diario, com’è che l’ho dimenticata? È ciò che faccio proprio mentre taglio la verdura e cucino. È ciò che faccio proprio mentre ordino d’asporto. È ciò che faccio proprio prima di mangiare. È ciò che faccio guardando Coral che dorme. È ciò che faccio guardando i bambini che giocano. È ciò che faccio parlando con l’amica. O con mia madre. È ciò che faccio viaggiando nel tempo, tornando da te. È ciò che sto facendo ora… mentre il sole piano sorge e illumina la stanza. Pregare. E forse è proprio quello il segreto… forse sta proprio tutto lì.

Il tuo messaggio con il link di una canzone che mi fa iniziare la giornata piangendo. Le parole cantate da uno sconosciuto che parla di noi. Il cielo dipinto da Dio, stamattina, che penso sia solo mio. Poi il vicino scende in strada, si accende una sigaretta e guarda in alto. Allora forse è dipinto anche per lui. Poi un cane. Calmo. Passa. Allora, forse, quella canzone non parla solo di noi. Allora forse queste lacrime non sono solo mie ma anche le tue. Perché piangi, allora, amore? Perché stanotte sei triste? Hai forse viaggiato ancora nel tempo? Hai forse ancora corso tra le braccia di zia? O forse non lo hai fatto? Da quand’è che non lo fai? Sei forse tornata a quando non c’era un affitto da pagare, bollette da non far scadere? A quando neanche sapevamo cos’erano i soldi… te lo ricordi?

E non siamo mica nati ricchi, noi/ Ci alziamo presto la mattina e poi/ siamo distratti un po’/ e stretti nel metrò. / E la sveglia che suona alle sei/ i sogni poi non li finisci mai / Ma tu sei stanca.
Vorrei ci fosse un giorno/ un giorno senza fine. / Uno di quelli in cui/ ti scordi che domani/ ti devi alzare presto e devi lavorare. / Un giorno senza fine… / Riprenderti per mano, andarcene un po’ al mare. / 

Quand’è l’ultima volta che siamo stati al mare insieme? Undici anni fa? Sembra passata una vita. E te lo ricordi Marco? Che tipo! E Sofia? La ricordi Sofia? 

Sofia. 


Scrivo questo messaggio, lo mando ad una persona e poi apro il diario. INVIO. 

Oggi non ho molta voglia di scrivere. 
Non ho molta voglia di scrivere non perché sia vuoto ma perché sono troppo pieno. Ho bisogno di respirare. Respirare, chiudere gli occhi e ascoltarmi. Ascoltarti.

“Non è meglio costruirsi delle mura attorno per non soffrire più? Non è meglio proteggersi da ciò che c’è fuori?” Non è meglio, chiedi? 

E sei disposta a lasciare così le carezze di una madre dopo aver fatto pace? Al sesso col fidanzato dopo che ti ha chiesto scusa? A un abbraccio di ricordi con gli amici dopo che vi siete rincontrati? Al fresco della pioggia d’estate? Al calore di una giornata di sole in inverno? “Non è meglio costruirsi delle mura attorno per non soffrire più”, mi chiedi. Ti rispondo: no. Ti rispondo che è meglio spogliarsi e restare nudi in mezzo a tutto ciò che c’è fuori. Perché solo così si vive. Solo così. E vorrei, in questo momento, poter trovare parole migliori per dirtelo ma nient’altro in mente mi viene se non la parola “vivere”. Pensaci. Quanto bello era da bambina uscire in bicicletta con le amiche? O da grande con gli amici in macchina? Quanto bello era recuperare un brutto voto? Correre a casa e sentirsi dire dal papà che era orgoglioso di te. Quanto bello era tornare a ridere dopo che si era pianto? Quanto bello è tornare a ridere dopo che si è pianto? Quanto bello era giocare col cane? Quanto bello era sentire le storie del nonno? O l’amore della nonna? E quanto l’affetto di una zia? Davvero avresti rinunciato a tutto quello solo per non soffrire più? Pensaci. Pensaci perché prima di imparare ad andare in bici quante volte cadiamo? Prima di imparare ad uscire in macchina quante paranoie ci facciamo per l’esame di guida? Prima di sentirsi dire dal papà che è orgoglioso di noi, non dobbiamo forse prima sbagliare o fare scena muta ad un’interrogazione? Davvero credi che il papà è orgoglioso di noi solo perché sappiamo che Roma è la capitale d’Italia? Non perché abbiamo saputo affrontare la caduta, rialzandoci? Davvero avresti voluto rinunciare alla gioia di crescere con un cane per evitare il pianto di quando poi è morto? O le storie del nonno, l’amore della nonna? Non possiamo solo far vincere il ricordo del negativo… non possiamo ricordare solo quello. La gioia non se lo merita, la piccola te non se lo merita, il tuo cane felice che scodinzolava non se lo merita, il tuo nonno sulla poltrona dopo pranzo che ti parlava non se lo merita, la tua nonna che ti proteggeva non se lo merita. La tua mamma, che ti ha messo al mondo e che tanto ti ama e sempre ti amerà, un domani non se lo meriterà. 

Vivere. Solo quello abbiamo da fare… Altrimenti che senso ha?

Ieri ho avuto una di quelle giornate no e mi sono reso conto che sarebbe andata in un certo modo sin dal mattino, sin da quando ho aperto gli occhi e non volevo alzarmi dal letto. C’era infatti qualcosa che non andava, c’era troppo silenzio. C’era troppo buio e non sentivo la luce. Quella luce che ti dice, mostrandosi, “Vieni, la strada è questa per oggi.” Ieri nullaIeri ero solo. La mattina neanche ricordo come è andata. So solo che a una certa ora ho cominciato a bere sperando l’umore cambiasse ma niente. Soltanto più silenzio è arrivato. Allora ho aperto un’altra birra, preso delle noccioline, messo su un film. Il film neanche l’ho finito, le noccioline le ho divorate in due minuti e le birre son diventate tre. Fossi stato in Italia, anni addietro, sarei andato da mia nonna. Mi sarei seduto ad ascoltarla finché non mi avrebbe toccato e detto: “ma che tieni?” Ed io: “cosa?” E lei: “gli occhi.” A quel punto mi avrebbe accarezzato ed io avrei pianto dentro, liberandomi, mentre lei chissà che avrebbe fatto. Neanche me lo ricordo più poi che faceva. Ma avrebbe funzionato. E ci ho pensato ieri. Ci ho pensato. Così ho scritto ad una persona. 

“Respira. Poi decidi.”

Quante volte che ci dimentichiamo di respirare, ah? Di chiudere gli occhi, respirare e ascoltarci. Quante volte? Sono andato a dormire dopo quei messaggi. Ho dormito fino alle 17 forse, o giù di lì. Quando mi sono risvegliato ero nuovo e consapevole che ieri doveva andare così. Era inutile combatterlo il giorno. Perché quando le cose devono andare in un certo modo è più grande la sofferenza che ci diamo da soli, creando attrito cercando di fermare l’avvenimento delle cose, piuttosto che le cose stesse. Semplice a capirlo a mente lucida, vero? Diverso è quando ci sei dentro. Però ho capito che quando abbiamo bisogno di aiuto dobbiamo dirlo. A volte serve tenerselo per sé, sì, ma quando vediamo che il fardello è troppo grande, troppo pensante, dobbiamo lasciar che sia l’onestà a parlare per raggiungere qualcuno. Potremmo restar sorpresi nel vedere che quel qualcuno era proprio lì per noi in quel momento.

Non serve mostrare sempre e solo quando siamo al 100%, chi lo ha detto? Nessuno è sempre e solo al 100%, nessuno. E a volte siamo più forti se ci apriamo piuttosto che se restiamo chiusi


Così oggi la luce è tornata. Ha ripreso a farsi sentire e a mostrarmi la via. In questo ennesimo giorno di lockdown parziale della città so cosa fare.