Ma te li ricordi quegli incontri che ti portavi dentro per giorni? Quelli che accadevano di sfuggita, quelli che liberavano magia e che ti accompagnavano le notti senza farti dormire. Parlo di quegli incontri innocenti in cui sfiorarsi la mano per sbaglio valeva più di una scopata. Di quegli incontri a cui non potevi scrivere, di quegli incontri che potevi solo sperare di rifare; magari nello stesso giorno, nello stesso posto, una settimana dopo o un mese più in là. Ora ogni giorno possiamo scriverci e non ci pensiamo. Prima ci pensavamo e non potevamo scriverci. Che buffo, ma ci pensi? Potevamo solo chiamarci a casa, al massimo, te lo ricordi? Ricordo come lasciavo la cornetta appesa e dalla finestra correvo a gridare: TI AMOOO! Poi ricorrevo tornando dentro e le chiedevo: “mi hai sentito?” Lei mi diceva di sì… anche se le orecchie non lo avevano fatto. Mi diceva di sì perché lo aveva fatto il cuore. E il cuore, una volta, sentiva. TI AMOOO! Eccome se lo sentiva. Cosa sentiamo invece, ora? Che a una ragazza offro la cena e poi mi chiede dei soldi per mostrarle che sono serio. Cosa sentiamo invece, oggi? Che un ragazzo solo si vanta di quanto ce l’ha grosso e di quante se ne fa. Cosa? 

La timidezza, il rossore in viso, il silenzio, la vergogna, le labbra serrate, gli occhi bassi, gli occhi negli occhi, gli occhi negli occhi per sbaglio, il camminarsi vicini, lo sfiorarsi, il toccarsi le ginocchia per caso, seduti, le farfalle nello stomaco, le cose senza senso che fanno ridere, i primi baci, i primi solletichi, i primi orgasmi, i primi amori. Ma te li ricordi? Quegli incontri che ti portavi dentro per giorni… e che ora ancora dentro hai.

Eravamo uguali e quello mi manca ora, a cena in mezzo a gente che non è la mia. A cena solo, a difendermi, senza nessuno al mio fianco uguale. Senza nessuno che viene da dove vengo io. Senza nessuno che sa cosa c’è dietro ad ogni parola che dico o ad ogni sguardo che ho. Dicevano eravamo speciali; lo eravamo perché uguali. Venivamo dalle stesse strade, dalle stesse case abbandonate, dalle stesse droghe. Dallo stesso sesso ubriachi, dagli stessi schiaffi che ci siamo dati e dalle stesse lacrime. Dalle stesse armi che ci rendevano più grandi e sicuri; dal tirapugni freddo nelle mie tasche al fumo caldo nelle tue mutande. Non c’era bisogno di difendersi perché nudi assieme… cosa potevano mai farci? E invece adesso le loro parole mi entrano dentro, i pensieri di ciò che ho detto o non detto mi danno il tormento. Non eravamo più leggeri prima? So che anche tu adesso non dormi. So che anche tu adesso sei sola. So che entrambi adesso siamo in terra straniera in un mondo che non è il nostro. Ma com’è che fai, tu? Com’è che fai a non prenderti la vita? Io a volte ancora ci penso a farlo. Nel buio della mia stanza. Nel buio di questo mondo, alla finestra, affacciato tra il vuoto e il silenzio. Com’è che fai, tu? Salterei con te stringendoti la mano e chiudendo gli occhi. Ora invece se li riapro è solo il mio pugno che stringo. Com’è che fai, tu? Come?

Chi mi legge un po’ più “often” sa che non mangio quasi mai a casa. Vuoi il lavoro, vuoi il bere, ma sono più le volte che mangio al ristorante, o da asporto, che quelle che mangio cibo cucinato da me o da Coral. Il che rende quelle occasioni delle vere e proprio “cerimonie”. I miei rigatoni carne macinata e funghi? Sono come il cenone di capodanno! Le mie orecchiette salsiccia e broccoli? Come il pranzo di Pasqua! Per non parlare di quando preparo il tiramisù o Coral la cheesecake! Che ve lo dico a fare!

E questo mi ha… questo mi ha… 

Sto cercando di ricordare cosa volevo scrivere ma mi è completamente passato di mente. 

Volevo parlare del cibo ma perché? Volevo parlare di quanto… di quanto per me non valesse poi più di tanto. E sarà che ci faccio più caso adesso, qui in Cina, perché “la cultura del cibo” è sacra a tal punto che quando ci si incontra in strada non ci si chiede: “come va?”, “come stai?” ma: “hai mangiato?”, “stai andando a mangiare?”. Ma non me lo ero mai posto prima il problema. L’importante per me è sempre stato con chi mangi e in quale spirito, non cosa o quanto. E…

E oggi ho pubblicato una foto di una torta che avevo in frigo e ben tre persone mi hanno fatto notare di quanto era vuoto. In effetti sì. Era completamente vuoto se non per la torta che ho mangiato appena sveglio. Un frigo vuoto. Immagino che per “la famiglia media mondiale” un frigo vuoto è qualcosa di “brutto”, qualcosa di triste. Non lo so. Ma so che mia madre legge questo diario e queste parole oggi sono per lei. 

Ma’… ho smesso di credere nel cibo dal momento in cui ho lasciato la tua casa. Amo ogni singola cosa che mangio e sono grato ad ogni cuoco, e ad ogni amico, e ad ogni amica, e ad ogni parente, e ad ogni zia, e ad ogni cugino, ad ogni amante. Sono grato a Coral, sono grato alle mie mani e alla mia voglia di chef che mi assale quando sono ubriaco e felice la domenica. Sono grato ad ogni briciola di pane che pago e che mi viene pagata. So quanto sacrificio è stato fatto e quanto sudore c’è dietro a ognuna di quelle briciole… ed è per questo che non butto mai nulla e al costo di scoppiare, finisco sempre quello che mi viene donato e posto in tavola difronte… ma… l’unico ricordo di cibo che ho è il tuo. La tua pastiera di riso dolce che mi preparavi d’inverno da piccolo e che mi lasciavi mangiare quando ero giù di morale. La tua crostata alla marmellata e la tua ciambella semplice, alla domenica pomeriggio. I tuoi biscotti e i tuoi plum-cake col latte, la notte quando ero in fame chimica. I tuoi ravioli. I tuoi ravioli doppio colore e le tagliatelle. I tuoi calzoni al sabato sera quando preferivi che restavo a casa piuttosto che perso in strada. I tuoi bignè alla crema. I tuoi struffoli al cioccolato e al miele. I “cazzi malati”, che la maggior parte dei lettori qui non conosce e di cui neanche so il vero nome! La pasta col latte. Me la ricordo da quando ero piccolo… cos’era? Latte di capra? Il farro e i minestroni quando non volevo mangiare e me ne uscivo con le mie cazzate sulla dieta e i digiuni. L’acqua e zucchero che mi preparavi la notte dopo che la passavo in bagno a vomitare l’anima. Acqua e zucchero. La mia torta di compleanno. Una, sempre la stessa; con la crema e le gocce di cioccolato fondente. Quanto mi manca se ci penso, la mia torta di compleanno. 

Saranno ormai dieci anni che non festeggiamo un compleanno insieme, ma so che la vita va così e so che anche tu lo sai… e non ho rimpianti. Perché so che a ogni compleanno quelle candeline ancora si spengono e quello champagne ancora si versa… per me, per te e per papà

Ti voglio bene.

Pensavo a come, per quanto vogliamo, non riusciremo mai ad esprimere o a scrivere davvero ciò che proviamo, davvero ciò che sentiamo. Come racchiudere -il tutto- in limitate parole? Come contenere tutto questo, in queste ventisei piccole lettere? Come la scriviamo l’emozione più bella che sentiamo? Come la descriviamo? Come la scriviamo la paura più profonda? Come la esprimiamo? Come scriviamo il silenzio che fa bene? Come lo scriviamo il silenzio che fa male? Possiamo provarci e quello è quanto basta. Possiamo provarci e quello è ciò che ci deve bastare. Una parola in più scritta ed è un casino, tutto si confonde. Una parola in meno usata e si perde il senso. Una punteggiatura malmessa e il pregiudizio ci precede. Una pausa non voluta e il pensiero vola via. E poi c’è anche il tempo, di mezzo. Il tempo. Che non esiste ma che detta leggi. Che non esiste ma che solo se c’è, ci prendiamo cura di leggere (ascoltare) quello che qualcuno, usando tutto il suo tempo, ha scritto (detto) in quelle pagine.

Pensa l’ironia.

Solo a tempo perso leggiamo ciò che qualcuno ha scritto su tutto ciò che è il suo mondo.


Pensavo a come, alla fine, io scrivo prima per me.

Mi hanno chiesto come faccio a relazionarmi con la gente nel modo in cui faccio. Come rompo il ghiaccio. Come evito le situazioni imbarazzanti, come so sempre cosa dire al momento giusto. 

La verità è che non so sempre cosa dire al momento giusto e non evito le situazioni imbarazzanti. La verità è che non rompo affatto il ghiaccio. La verità è che, ricordandoti sempre di rispettare chi hai difronte, se sei vero e senza “puzza sotto al naso”, genuino, la gente lo sente e non può che non avere un buon ricordo di te. 

Mi trovo ogni giorno ad interagire con persone provenienti da mondi diversi. Mi ritrovo al mattino a fare colazione con sportivi maratoneti la cui vita gira intorno alla salute; non mi permetterei mai di fumare davanti a loro e non mi permetterei mai di ridere quando mi spiegano perché una spiga e un uovo al giorno fanno bene. Ascolto. Mi ritrovo a pranzare con businessman in Maybach, bevendo vino da quattrocento dollari a bottiglia che sanno cosavuol dire lavorare e fare sacrifici; non mi permetterei mai di contraddirli davanti a tutti a tavola se dicono una “fesseria”, o di dimenticarmi di mantenergli la porta aperta se so che sono dietro di me, uscendo dal ristorante. L’ego lo lascio a casa. Ascolto. Mi ritrovo a fare pausa tea al pomeriggio con donne che per vivere fanno le escort; non mi permetterei mai di fare la morale a loro o di giudicarle. Chi cazzo sono io per parlare del loro mondo e delle difficoltà che hanno in questo? Ascolto. Mi ritrovo a cena con diplomatici e consolati che mi parlano e parlano di problemi astratti e di castelli per aria; non mi permetterei mai di mandarli a fanculo e dirgli che “non sanno la gente mia che vede ogni giorno!” Alla fine sono solo impiegati anche loro. Ascolto. Mi ritrovo la sera con figli di papà in Bentley al club, a bere cose per un totale di trentamila euro e a parlare di nulla; non mi permetterei mai di sputare dove camminano o di chiedergli se il giorno dopo lavorano, perché… chi se potesse farlo non darebbe tutto ciò che può ai propri figli? Ascolto. Mi ritrovo la notte a riprendermi dalla sbornia bevendo acqua con le bollicine e a fumare, insieme a un mio amico anziano che è stato in galera per stupro da giovane e che ora raccoglie cartoni dalla spazzatura per rivenderli. Lo aiuto a collezionarli e stiamo insieme al chiaro di luna quando tutti gli altri dormono. Non mi permetterei mai di dirgli qualsiasi cosa. Che ne posso mai sapere, io? Ascolto. 


Ok. Richiedimelo ancora. 

“Come fai a relazionarti con la gente nel modo in cui fai? Come rompi il ghiaccio? Come eviti le situazioni imbarazzanti e come fai sempre a sapere cosa dire al momento giusto?”

“Ascolto.”

Per te volevo scrivere un intero articolo non soltanto una pagina di diario. Volevo scrivere qualcosa che rientrasse nelle ricerche su Google. Trovare un titolo “acchiappa click” e far leggere di te. Ma poi ho pensato che la vita è fatta di singole pagine non di interi articoli. La vita è fatta di ogni giorno; Di ogni mattina, di ogni pomeriggio, di ogni sera. Di ogni notte… come questa.  Come questa, in cui, dopo aver riso, parlato, ballato e bevuto l’impossibile con te, mi ritrovo a pensarti nel buio del mio soggiorno e chissà, magari anche tu stai pensando a me (dato che ho appena ricevuto un tuo messaggio). Sì, sono arrivato a casa. Buona notte anche a te.


La bottiglia del mio whisky giapponese preferito è vuota per cui finisco la serata aprendo del Dalmore Cigar Malt Reserve. È tardi, non voglio fumare in casa. Il retrogusto di sigaro del drink mi dovrà bastare. 

Volevo scrivere di te ma pensando a te ho deciso di scrivere dell’ipocrisia. L’ipocrisia. Sarebbe bello aggiungere ora la definizione che il dizionario dà alla parola ipocrisia ma è già tanto che sto scrivendo e brillo come sono, non mi metterò di certo a ricercare parole online e fare copia e incolla. Scusami diario. Scusami lettoreIpocrisia. Non ne conosco la definizione ma ho ben chiaro in testa cosa è… È l’uomo che chiama “puttana” la donna a cui piace il sesso libero e “figo” l’uomo che scopa in giro. È l’uomo che può avere ex, ma s’incazza con la moglie se per caso in strada incontra vecchie fiamme. È la persona che si sente sola e vuole marito/moglie/o +amici e parla male di chi non ha paura di presentarsi, parlare di sé e fare amicizie. È la persona che punta il dito e fa notare a tutti quanto è sporco il tappeto della casa del vicino, senza prima considerare quanta neve sporca c’è sul tetto della sua casa. È la persona che chiama “morti di fame” i contadini e li disprezza e poi compra le mele BIO a km zero. È il ricco che guarda male il commesso del negozio, dimenticandosi che ricco ci è diventato grazie al sangue e al sudore del padre. È il commesso che guarda male il curioso che chiede il prezzo, dimenticandosi che se vende banane o Chanel, sempre venditore è. È il dottore che parla senza cuore ai pazienti trattandoli come numeri. Sono i pazienti che parlano male del dottore (godendoci), quando piange perché ha scoperto che il figlio è malato. È il finto boss che dimentica le regole e uccide bambini per soldi, e poi vuole vendetta se il figlio gli viene toccato. È chi dice che “sei ricchione” se scrivi poesie e poi quando solo, sogna. È chi schifa gli asiatici ma poi compra da loro perché più economici. È l’albero marcio che non può dare frutti buoni. È chi parla male di te. Chi ti ha sputata in faccia, chi ti ha giudicata, chi ti ha condannata, chi ti ha derisa, chi ti ha picchiata, chi ti ha tirato i capelli e trascinata a terra, presa a calci… e poi pagata e goduto nello scoparti o nel farsi scopare da te. 

Quanto piccolo è l’essere umano. Quanta piccolezza della “razza”, che mostra, quando fa differenza tra uomo e donna, donna e uomo, uomo e ladyboy, ladyboy e donna. Non abbiamo tutti comunque un cuore? Ma che diritto abbiamo?

Ed io adesso ho scritto ladyboy ma tu mi correggerai che in effetti si dice Kathoey. Non lo so. Ma so che sai che per me sono solo nomi; come la famiglia o la chiesa. O il matrimonio o gli amici. Sono solo nomi, solo parole. Noi siamo vita ed io quello vedo. Quello sento.

Le vite che sfioro, le vite che mi sfiorano. Le vite che tocco, le vite che mi toccano. Le vite che mi baciano, le vite che mi fanno venire. Le vite per cui scrivo, le vite che mi leggono. Le vite che mi spogliano. Le vite a cui mi mostro nudo.

Noi siamo vita ed io quello vedo. Quello sento.

Una volta ho letto una frase che diceva: “non è da Natale a capodanno che ingrassiamo ma da capodanno a Natale.” È capitato anche a te di leggerla? Non è da Natale a capodanno che ingrassiamo… è vero! E


Stavo scrivendo ma poi mi sono distratto perché una canzone mi è venuta in mente: “Babbo Natale esiste” di Fabrizio Moro. Magari a qualcuno di voi non piacerà ma sto scrivendo al mio diario dopotutto e allora, voglio fargliela sentire. Voglio fargliela sentire perché so che questo diario, essendo padre ed essendo figlio, essendo madre ed essendo figlia, sa ascoltare, sa sentire, sa parlare. Ed io in questo momento ho bisogno di sentirmi dire che babbo natale esiste… e voglio aspettarlo.

È da un po’ che non apro il blog. È da un po’ che non apro questo diario, il che è curioso perché un diario aperto! È da un po’ che penso a tutt’altro che condividere con te, ciò che penso. È da un po’ che penso a tutt’altro che scriverti ciò che sento. Sarà il periodo. Sarà che è Natale; una festività a me cara e che sembra non esistere da quest’altra parte del mondo. Sarà la nostalgia. Sarà che sto scrivendo un altro libro e che non voglio disperdere quell’energia. Sarà che non sono mai sobrio. Sarà che dopo questa pagina, mia madre mi chiamerà preoccupata. Sarà che son sparito. Sarà che non mi son sparato.

Quando ero piccolo, in momenti come questi avrei saputo dove andare. Ce lo avevo un posto lontano in cui dormire e sparire… per tre giorni… per ritrovare quell’equilibrio che cercavo, quell’equilibrio di cui avevo bisogno. Tre giorni con il Nokia spento, lontano, e tutto tornava apposto. Ora come faccio? Ora che sono brillo, solo, in un’auto più veloce soltanto, senza sapere dove andare?

Dove si va? Come si fa?”, faceva una canzone dei Nomadi. “A stringere la vita/ e intanto fuori scoppia la notte”, diceva. “Dove si va? Come si fa? Se vivere da queste parti/ è come tirare a sorte”.

Me li ricordo i concerti dei Nomadi.

Ricordo i brividi sotto la pelle… la pelle d’oca. Ricordo quelle notti fredde. Ricordo quelle notti in cui, dormire in case abbandonate insieme era tutto ciò che volevamo. Ricordo quello che ci facevamo. Ricordo le nostre canzoni e intanto, ora, a 230 km orari la strada mi passa davanti.

Veloce.

… come la vita.

Sarebbe così facile sbandare adesso e andarsene, perché non accade? Perché le mani smettono di tremare proprio adesso? Perché invece il piede schiaccia sul freno piano? Perché?


Avevo donne da cui andare, ora le devo pagare. Avevo amici da cui andare, ora li devo pagare. Avevo una bicicletta e un monopattino… ora nemmeno so se ce li ho più.

Ma è curioso.

Il messaggio di una fan mi ha fatto fermare. E poi il messaggio di un altro, e poi di un altro, e poi di un altro ancora, mi hanno fatto accostare. Ed ora è curioso… come ho deciso di tornare a casa, rallentando, perché in fondo domani sarà un nuovo giorno.

Dovrei aprire il diario e scrivere qualcosa. Dovrei aprire il diario e scrivere qualcosa. Dovrei aprire il diario e scrivere qualcosa

Hai presente quel pensiero che puntualmente ti arriva in testa in un particolare momento della giornata, per più e più giorni consecutivi? Come quando vai nel corridoio che ha la luce fulminata e pensi che dovresti cambiarla. Come quando vedi una macchia sul muro del bagno, di fianco alla lavatrice, e pensi che dovresti toglierla. Come quando ti viene in mente un ricordo e pensi che dovresti scrivere a quella persona ma… poi il momento passa… e il ricordo anche… e il pensiero pure.

Dovrei aprire il diario e scrivere qualcosa, penso, mentre al mattino preparo la borsa per andare al lavoro.

Dovrei aprire il diario e scrivere qualcosa, penso, mentre in pausa pranzo rispondo a qualche messaggio.

Dovrei aprire il diario e scrivere qualcosa, penso, mentre alla sera, al tavolo nel mio bar mi godo un sigaro, guardando in aria il fumo che prende le forme del tempo che va. Prima chiaro, poi denso. Poi denso, poi via.

Dovrei aprire il diario e scrivere qualcosa… ma certe volte qualcosa è bene tenersela dentro. È bene, a qualcosa, darle il tempo di cui ha bisogno per prendere vita, darle il tempo di cui ha bisogno per prendere forma. È bene darle il tempo di cui ha bisogno, per diventare chiara e poi densa, e poi densa ancora, prima di lasciarla andare via…

Quando ero piccolo, ricordo che la noia mi era nemica ma anche amica. Ricordo che non era ogni volta poi così male. Mi ricordo che faceva anche del bene… non te lo ricordi?

Parlo dei tempi in cui non avevamo il mondo a portata di dito. Parlo dei tempi in cui non eravamo altrove sempre e solo con gli occhi ma con l’immaginazione, se capitava. Parlo dei tempi in cui forse per l’ultima volta siamo stati davvero presenti. Dei tempi in cui annoiarsi a casa significava: o masturbarsi o trovare qualcosa da fare. Ora invece la gente si masturba col telefono, sempre vicino nel caso arrivi una notifica! Ora sento che non sappiamo più annoiarci. Ora sento che ne abbiamo paura, addirittura. Di restare senza fare nulla. Di restare fermi… dimenticando che c’è un’immensa differenza tra le due cose. Ora alla prima occasione ci distraiamo; prendiamo il cellulare e tra una notifica e l’altra, tra un app e un’altra, siamo sempre ad impegnare il tempo. “Perché non c’è nient’altro da fare!”, abbiamo cominciato col dire. Non c’è nient’altro da fare… e la lista delle cose che procrastiniamo si allunga. Manco più a “cosce per aria” a goderci il panorama dalla finestra, sappiamo fare.

Mi viene in mente ora un’immagine del passato. Un’immagine che soltanto adesso capisco quanta saggezza e insegnamento contiene; L’immagine di mia nonna, seduta fuori, sotto alla veranda della porta d’ingresso della casa in campagna. Semplicemente seduta. Su una sedia a dondolo con il pettine in mano, a pettinarsi a tratti e a contemplare il paesaggio ad altri. Sono sicuro che hai un’immagine così del passato anche tu, se la cerchi bene. Così come ho quest’immagine proprio adesso, davanti, di una nonna con la propria nipotina seduti a terra sul marciapiede. Hanno le gambe stese. Entrambe muovono i piedi da un lato e dall’altro e sorridono. Sono coperte fino al collo da cappotti giganti; fa freddo ma stasera di meno. Sono lì senza fare nulla… NO! Sono lì ferme, in pace, in armonia, in quel momento che resterà con loro per sempre. E in quel momento sono anch’io. Seduto a terra, sullo scalino di fianco alla sedia su cui siede mia nonna. In silenzio. Lei con il caffè ed io con i biscotti. 

La noia.

Il che è buffo! Perché poi crediamo di stare meglio, impegnando il tempo col cellulare nei momenti di noia, ma cos’è che poi effettivamente ci dà quell’azione? Niente! Non ci dà niente! Ed è quello che stiamo finendo con l’avere nelle nostre vite… niente

Mi viene in mente un’altra storia a riguardo. Una storia che ho ricordato qualche giorno fa, mentre mi trovavo in un ristorante. Tutti attorno a me, (e quando dico tutti, intendo proprio tutti!), erano persi con la faccia nel telefono. Tavoli pieni di amici insieme, ma ognuno per fatti suoi… Io ero solo. Cenavo presto ed ero già alla seconda birra quando ho ricordato il gioco della bottiglia.

Di quando alle volte lo trovavo così stupido, quel gioco… ma di come altre, invece, se c’erano amiche femmine, lo trovavo divertente, quasi emozionante. Obbligo o verità. Bacio. La mano che si sfiora. Lo sguardo. Il toccare il seno da dentro alla maglietta. Il toccare il pisello da sopra al pantalone. Quelle erezioni condivise con le femmine… quell’intimità che si creava e che ci legava… quell’intesa… Dio e quanto mi manca quell’intesa, e quel sorriso, e quell’innocenza delle cose fatte per la prima volta

Te le ricordi?