Pasqua. Che bel giorno è questo. Che bel giorno per rinascere, che bel giorno per meditare. Anche se in realtà ogni giorno è buono per farlo. Ogni giorno è quello giusto. Ma capisco e so che abbiamo bisogno di stimoli nuovi ogni volta e di motivazioni sempre più forti, sempre al momento giusto. Dopotutto può capitare che ce lo dimentichiamo di essere esseri spirituali che fanno esperienze umane e non il contrario. E va bene così! In questo modo diamo più valore al tutto quando lo vediamo e riscopriamo ogni volta, no? Come un’alba. È sempre lì eppure che effetto che ci fa quando ci capita di vederla? E rivederla? E rivederla? O un tramonto sull’oceano all’orizzonte, con la brezza del tardo pomeriggio e le gocce d’acqua sulla pelle. I brividi. O un bambino che sorride. O una mamma che ci accarezzava da piccoli. 

Non ho mai capito perché la gente non considera queste cose e pensa che essere vicini a Dio sia qualcosa, in qualche modo,“triste”. E dico vicino a Dio e non vicino al Cielo perché mi riferisco proprio a chi ci crede, in questo giorno. Perché vediamo la religione, la Chiesa, Gesù, la Madonna, come qualcosa di … sofferenteCerto, la sofferenza esiste, è vita. Chi gioirebbe a vedere il proprio figlio crocifisso? Il proprio figlio disoccupato, con figli e debiti fino al collo, la propria figlia persa. Chi? Ma considerare solo queste cose è come uccidere due volte; I nostri figli ancora e noi stessi. Perché Gesù è vita che dava non morte. Gesù andava alle feste, scherzava, beveva vino, stava con la gente, scappava dalla “polizia”, frequentava criminali e prostitute. Piangeva anche, certo, soffriva, ma chi non lo fa? Ed anzi è proprio anche quella la cosa bella, la consapevolezza che nella sofferenza non siamo soli. Perché davvero non lo siamo. E se solo sapessimo parlarci e, principalmente ascoltarci, scopriremmo che chiunque ha paura di qualcosa, ama qualcosa ed ha perso qualcosa. Davvero siamo così tanto ciechi ed egoisti da non rendercene conto?

Non siamo soli, ci rendiamo.

Buffo a quante volte il silenzio del mattino mi porta indietro nel passato. Come adesso, ad esempio, che in questo silenzio sono tornato a quando la mattina del Sabato Santo mi svegliavo col pensiero di andare in cucina a mangiare la pastiera, o qualche altro dolce, che mia madre preparava. E posso ancora risentire quella gioia che provavo allora. Quella contentezza mentre prendevo il dolce dal mobile, in pigiama, mentre lo portavo sul tavolo, mentre andavo a prendere la forchetta, quella piccola, mentre muovevo la sedia nel silenzio di quel mattino e cominciavo a mangiare. E sapete cosa? Se chiudo gli occhi posso sentire ancora il sapore di quel primo morso e il suono di quella domanda che sempre mi facevo: “la finisco?” Buffo
Stamattina anche mi sono svegliato col pensiero del dolce. Col ricordo più che col pensiero. E ho sorriso perché solitamente il mio frigo è sempre vuoto ma stamattina non lo era. Qualcuno ha voluto che ci trovassi un tiramisù ed una cheesecake alle rose. Non sono i dolci di mia madre, certo, ma non è forse tutto dolce tutto quello che ci è donato con amore? E non sono forse tutte queste donne che mi amano, mia madre? Tutti questi uomini, i miei fratelli? A volte diamo troppo potere ai ricordi e troppe volte li lasciamo che s’impossessino della nostra testa. Bisognerebbe anche lasciare spazio a quello che ci sta accadendo ora. Bisognerebbe lasciarglielo perché solo così, poi, un giorno, potremo dirci di aver avuto una vita piena.

Altrimenti resta solo una vita passata.

Mentirei a me stesso se non scrivessi di come sto soffrendo e piangendo in questa settimana quando prego. Per cui oggi il mio pensiero mentre scrivo va al cielo. Mentre fuori è ancora buio e Coral dorme dolce e piccola. So che ormai parlare di religione è diventato un cliché; la gente parla più volentieri del finto mondo dei social piuttosto che del mondo vero dello spirito che abbiamo. So che ormai parlare di religione fa litigare piuttosto che unire. So anche che, per citare un cantante, perché la gente ai giorni d’oggi pensa a come ti vesti non vorrebbe mai farsi vedere in giro con uno come Gesù. Perché te lo immagini? Coi sandali e con la tunica che entra al bar con te per la colazione. Io non ho mai guardato alle apparenze e ti dico che magari potessi avere quella possibilità, magari! E invece lo abbiamo ucciso. Ci siamo accaniti contro di lui come ci accaniamo gli uni contro gli altri, ancora ora. Abbiamo preferito Barabba a Lui, l’omicidio alla Parola, il male alla Verità. E siamo stati così tanto bravi a farlo che dopo averlo fatto, se ci pensi, ci siamo detti così tante scuse che in effetti la ragione è passata dalla nostra parte. Perché abbiamo ragione quando condanniamo il gesto di una ragazza che si suicida dopo che un suo video erotico arriva online. Perché abbiamo ragione quando ci accaniamo contro un fratello per l’eredità del padre, distruggendo una famiglia. Perché abbiamo ragione quando giudichiamo chi ha studiato tanto ed ora pulisce i bagni (in nero) perché è diventato padre e le aziende non lo assumono. Perché abbiamo ragione quando disprezziamo chi è nato in un determinato posto del mondo, in una determinata condizione nel mondo, e per vivere mette una bancarella di giocattoli in strada. Perché abbiamo ragione quando sui social ci mostriamo tristi per le guerre e poi parliamo male alla cameriera che ci ha sbagliato l’ordine, o imprechiamo contro l’autista davanti a noi perché non ha visto che è scattato il verde. Perché abbiamo ragione quando guardiamo con superiorità a chi non parla bene. Perché abbiamo ragione quando parliamo di solidarietà e poi non facciamo una carezza o un sorriso a chi ha un brutto odore e beve perché ha perso la casa. Perché abbiamo ragione a ridere di chi è grasso. Perché abbiamo ragione a ridere di chi è diverso.

Il concetto e l’idea delle priorità di cui ho parlato ieri mattina mi è rimasto in testa e, difatti, ieri sera a cena, al punto giusto, mi sono fermato. Non che non abbia toccato nulla, tutt’altro! Ma ho ripreso il controllo e detto stop quando dovevo dire stop. Sembra una cosa facile, vero? Sembra così scontato. Eppure vi dico che non lo è. Prendere il controllo su noi stessi già di per sé ci fa sentire meglio e fidatevi se vi dico che non lo facciamo poi così tanto spesso. O quanto meno non così tanto spesso quanto crediamo. Infatti stamattina sto meglio. Tanto che ho ricominciato ad allenarmi, a fare la doccia fredda e a pregare. La pace nel silenzio che ora sento sembra nuova, anche se già la conoscevo… anche se già la conosco. E questo mi fa pensare a quanto importante è rispettare la parola che ci diamo. Diamo così tanto peso alle promesse che diamo agli altri ma poi così facilmente rompiamo quelle che diamo a noi stessi. Non dovremmo. Non dovremmo perché ogni promessa mancata a noi stessi, in qualche modo, è un tassello in più che togliamo alla nostra autostima, al pensiero che abbiamo di noi. Anche se non ce ne rendiamo conto, anche se ci sembra una banalità. Perché sembra una banalità “prefissarci” che al terzo morso di torta dobbiamo fermarci, vero? Sembra una banalità prefissarci che a una certa ora dobbiamo tornare a casa, che dopo un certo tot di bicchieri dobbiamo fermarci, che a certa gente non dovremmo risponderla, che certe cose non dovremmo leggere, vero? Tutte banalità. Eppure non farlo ci butta a terra e farlo invece ci autodisciplina, com’è? Com’è che lo spirito ne giova così tanto? Lo fa perché anche questa è vita e non viverla ci fa male. 
Provare per credere.

Quando un tempo sentivo parlare i grandi tra loro lamentandosi di come non avevano più le energie che avevano una volta, dopo aver fatto le ore piccole in giro la notte, non ci credevo. Credevo che era un loro problema, che forse si lamentavano troppo. Perché da piccolo uscivo la sera, facendo l’impossibile, e non tornavo a casa prima delle 2-3 del mattino. Alle 6 poi la sveglia suonava, “colazionavo” (il mio classico) latte e cereali e poi, pimpante e fresco, andavo a scuola. Di tanto in tanto anche bevevo di nascosto con gli amici prima di entrare in classe, o nei bagni, o con la fidanzata dopo la scuola, prima di pranzo. Dio solo sa quanti campari e gin a stomaco vuoto abbiamo bevuto alle 2 del pomeriggio! E non mi sono mai lamentato di nulla, non ho mai avuto nessun problema. (Nessun problema dal punto di vista di stanchezza, che sia chiaro. Perché bere a quell’età fa male, punto ebbasta! E non perché ve lo dicono i genitori ma perché è il vostro corpo a farlo. Perché quando cominciate a perdere sangue da dove non dovreste è già troppo tardi). Ad ogni modo… ora, invece, e più nell’esattezza stamattina, ho capito cos’è che quei grandi volevano dire. Lo capisco mentre sono io stesso a dirlo, allo specchio, e annuisco; “Non sono più un ragazzino. Non ho più quel fisico.” Questo perché sono più o meno un paio di settimana che, ogni sera, per un motivo o per un altro sto uscendo e sto bevendo più del solito. Il risultato? Al mattino mi sento una merda! Mi sveglio sempre tra le 4.30 e le 6.00, sì, ma non mi alleno, non scrivo, perdo sangue quando vado in bagno, tremo e mi alzo di scatto con le palpitazioni, sudato durante la notte, mi viene la nausea quando scopo se scopo troppo forte, ho mal di testa quando arriva mezzogiorno. Lo capisco mentre lo scrivo qui sul diario, e annuisco; “Non sono più un ragazzino, non ho più quel fisico. E le mie priorità sono cambiate.” Esatto. Perché è proprio così, le mie priorità sono cambiate. E credo che in fondo è quello di cui anche quei grandi si rendevano conto. Il loro non era un lamento ma uno cenno di risveglio. E non li ho più visti per cui non so se alla fine si sono svegliati o se hanno continuato a vivere dormendo… ma io voglio svegliarmi. Per cui terrò la mia parola per le cene già in programma questa settimana e poi darò voce alle mie nuove priorità. Lo devo a me stesso. Non perché sono io a dirlo ma perché è il mio corpo a farlo. Non perché siamo noi a dirlo ma perché è il nostro corpo a farlo.

Le priorità cambiano.

Oggi è la Domenica delle Palme e in questo giorno, forse venti anni fa, cominciai ad andare alla mini processione che c’è nel mio quartiere. Processione che parte dall’oratorio alle 10.30, se non ricordo male, e che finisce davanti alla Chiesa poco dopo. Saranno infatti, forse, un centinaio di metri di processione soltanto. Ricordo come cominciai con l’andarci insieme agli amici del tempo e poi man mano, col passare degli anni, solo. Ora di certo le cose son cambiate, non so. So che non c’è più il nostro prete storico; quello che ha provato fino all’ultimo a toglierci dalla strada, allestendo una stanza dell’oratorio con la playstation, con il tavolo da biliardo, con il teatro, con il campo da calcio, con le cene e le grigliate all’aperto d’estate, con le gite. So che di certo non c’è più la mia gente; quella con cui sono cresciuto, quella con cui ho condiviso l’infanzia, le prime esperienze. Quella con cui sono caduto, quella con cui mi sono rialzato. Quella che ho lasciato, quella che so che sempre ritroverò ogni qualvolta la cercherò. Quella per cui sarò sempre presente, quella che non c’è più, quella che sempre sarà. Ma so che di certo ci sarà ancora qualcuno, invece, oggi, proprio in quella mini processione, che in qualche modo sta rivivendo e ricamminando quella stessa strada camminata da noi in passato. E di certo starà riscrivendo una nuova storia, quel qualcuno, lo so. Dopotutto quelli come noi vengono e vanno, vanno e vengono e sempre scrivono. Dopotutto quelli come noi sono sempre fiumi che scorrono.

Svegliandomi stamattina, dopo qualche drink di troppo ancora in corpo da ieri sera, pensavo a che bello se adesso avessi il mare di fronte, alla finestra. Avrei preparato il caffè, lo avrei sorseggiato piano a piedi nudi sulla spiaggia al suono delle onde e avrei ascoltato il vento. Avrei chiuso gli occhi. Avrei respirato così tanto forte e a fondo da poter tener stretto così tanto dentro quel senso di pace. Quel senso di pace infinita affinché mi accompagni in momenti come questi, in cui, chiudendo gli occhi dalla città arrivo all’oceano.

Ho appena finito di leggere il libro “Eat That Frog” di Brian Tracy (e per sapere cos’altro sto leggendo quest’anno clicca qui). Mi è piaciuto. È un libro piccolo, compatto, diviso in piccoli capitoli che ti portano a non fermarti di leggerlo finché non lo finisci. È un libro che presenta ventuno “vie” per smettere di procrastinare. Non che io sia una persona che procrastina in generale ma in questo periodo avevo bisogno di motivazione e devo dire che in questa lettura l’ho trovata. Ovviamente lui è un Dio! Chairman, CEO, bestselling author, leader di seminari, “oratore”, criceto e grifondoro! Però quello che dice tocca un po’ un tutti. Anche se non sono troppo d’accordo sull’organizzarsi le giornate così tanto. Non l’ho mai trovato soddisfacente farlo giorno per giorno. A volte sì, mi aiuta, devo essere onesto, (e ricordo anche di aver condiviso qui sul diario con voi com’è che lo faccio) ma altre volte mi frustra soltanto. Sarà che la mia agenda non è piena come la sua. D’altronde, se sono in ufficio per otto ore al giorno, quello che c’è da fare lo faccio. Non ho bisogno di scrivermi: stampare documenti, prendere documenti, firmare documenti, scrivere email, mandare email, fare caffè, flirtare con la collega, mandare fotine sexy alla fan in Italia, rispondere all’email, mandare preventivi, trovare altri modi di moltiplicare sti soldi, mandare cuoricino alla moglie, pranzare, ecc. ecc. Sì, definitivamente la mia agenda non è piena come la sua. (O forse anche questi grandi leader oratori un po’ se la menano, eh! Chissà!) Ad ogni modo bel libro. Mi ha motivato e mi ha fatto rendere conto di quanto le notifiche del cellulare ci distraggono. Sembra una fesseria ma anche il solo bip di un messaggio, con la notifica che compare sullo schermo che si illumina, diminuisce il nostro grado di attenzione. E a lungo andare questo si somma e, appunto, fa la differenza su chi poi diventeremo. E mi viene da sorridere ora, mentre scrivo, perché ho appena ricordato che quando eravamo piccoli ed andavamo a scuola, ogni anno, venivano dei dottori in aula a dirci come le droghe in età preadolescenziale diminuiscono il grado di attenzione che, negli anni, si sarebbe sommato dandoci dei problemi di attenzione più seri quando poi saremmo diventati adulti. Ed ora che siamo adulti abbiamo i cellulari e la tecnologia! Praticamente c’è sempre una droga, sta a noi scegliere quale usare. Anzi, sta a noi scegliere da quale farsi usare. Perché se davvero fossimo noi a usarla avremmo molto più controllo di certo… su noi stessi e sulle nostre vite. E chissà, magari, non saremmo zombie in metropolitana la mattina ma essere umani che si sorridono e si augurano buongiorno.

A volte mi chiedo come mai, i miei nipoti, crescendo, hanno cominciato a smettere di raccontarmi le cose. Una volta mi raccontavano di come con la bicicletta andavano in posti in cui non potevano andare, di come un amichetto gli piaceva e gli faceva battere il cuore, di come l’allenamento li faceva sentire bene. Dei loro sogni. Delle cose che li motivavano. Poi pian piano lo hanno fatto sempre meno e pian piano, poi, troppo tardi, me ne sono accorto. Del fatto che ormai stanno entrando nel mondo degli adulti anche loro. Quel mondo degli adulti, triste, in cui non si parla di sé e in cui alla domanda “come stai?” si deve rispondere sempre “bene, grazie”. Perché in quel mondo vale la regola del 80/20, ovvero, l’80% delle persone non è interessata a quello che ti accade, o ai tuoi problemi, e il restante 20% invece è comunque felice che ce li hai!

Ma ad ogni modo è la vita, e va così. In più sono anche lontano, per cui, pensa te se posso avere voce in capitolo! Però è curioso perché, col tempo, davvero a volte mi sento mio padre quando mi trovo a dirgli: “quello che Kobe Bryant diceva per quanto riguarda lo sport vale anche per la vita e quindi adesso per te per la scuola”, oppure, “attenta a con chi esci. Quando si è fatta ora di tornare a casa, torna a casa. Se festeggi la notte con i porci, al mattino non puoi volare con le aquile”. Chissà se mi ascoltano. Io a mio padre non troppo lo ascoltavo ma ora mi rendo conto che quelle parole da qualche parte entravano e allora, alla più piccola, continuo a dirgli che è lei la più bella del mondo perché così magari domani se ne ricorderà. Domani, quando il cielo sarà scuro e scoprirà che esistono giorni di pioggia, anche lei.